«Se non diamo un segno di cambiamento, che ci stiamo a fare? ». Questa frase, che sistematicamente si ascolta nelle riunioni della nuova maggioranza sulla prossima legge di Bilancio, non è solo un modo dire. Sta diventando una sorta di rovello per il Conte bis. Un tormento in particolare per i rappresentanti del Pd che hanno bisogno di segnare la discontinuità rispetto al precedente esecutivo. E la discontinuità in questa occasione si sta giocando su una sola parola: Iva. La tagliola delle clausole per 23 miliardi imposta lo scorso anno, infatti, è un “drago” che brucia le risorse. Soprattutto a Palazzo Chigi e al ministero dell’Economia sono consapevoli che disinnescarle per intero equivale a «non fare niente altro». Né sul piano degli investimenti, né su quello del sostegno ai redditi più bassi e ai ceti disagiati. E quindi: «Che ci stiamo a fare? ».
Qualcosa quindi dovrà cambiare, anche accettando che alcune e selezionate aliquote possano scattare verso l’alto.
Ma quel «che ci stiamo a fare? » ha portato sul tavolo della trattativa un’ipotesi che viene considerato il primo mattone su cui costruire l’intera rimodulazione dell’Iva. Ossia la riduzione dell’imposta sulle bollette energetiche, gas e luce. L’esempio è stato preso dal Portogallo dove il governo di centrosinistra lo scorso anno ha tranciato l’Iva su elettricità e metano dal 23 al 6 per cento. L’esecutivo italiano sta allora provando a fare una scelta analoga. Al momento la tassazione sulle bollette è al 10 per cento per l’uso domestico e fino a un tetto di consumi prestabilito. L’idea è quella di tagliarla di un paio di punti. Un modo per disinnescare i recenti aumenti e per lanciare un primo segnale agli utenti meno abbienti. Una manovra, dunque, sui beni primari.
Ma soprattutto sarebbe il presupposto per infrangere il diaframma che si era formato in questi mesi e che aveva trasformato l’Iva in una sorta di tabù inviolabile: alcune aliquote verranno abbassate e nello stesso tempo altre, per alcuni beni specifici, verranno alzate. Quella sui prodotti di lusso potrebbe superare l’attuale 22 per cento.
La caccia alle risorse, però, non potrà fermarsi qui. Il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, si muove lungo una retta che considera non modificabile: la flessibilità sul deficit deve essere concordata prima e non dopo la presentazione della nota di aggiornamento al Def e di certo non durante l’esame parlamentare della legge di Bilancio. Ossia, il caos con cui venne varata la manovra nel 2018 non è replicabile. Tutto deve essere chiarito preventivamente. È impensabile muoversi come la maggioranza gialloverde che presentò un deficit al 2,4 per cento per poi correggerlo precipitosamente al 2. Il rapporto deficit/Pil — grazie alla nuova flessibilità accordata — sarà allora convenuto sulla linea del 2,2-2,3 per cento e verrà indicata una crescita nel 2020 dello 0,5-0,6 per cento.
Ma questi dati non permettono comunque di allargare i cordoni della borsa. Le misure contro l’evasione fiscale e in particolare sull’uso del contante e a favore della moneta elettronica segnano più un’inversione di tendenza rispetto alla precedente parola d’ordine, “flat tax”, che una risorsa certificata (le simulazioni più ottimistiche producono 2-3 miliardi in più, ma non rappresentano una certezza per Bruxelles). Le spese vanno dunque coperte con altri fondi.
E poiché l’esortazione «che ci stiamo a fare? » dovrebbe portare ad almeno altre due novità — l’abbattimento del cuneo fiscale e le cosiddette misure “green” — è partito il dragaggio. Per il cuneo fiscale, che sarà concentrato sui redditi più bassi — l’ipotesi di lavoro è fino a 40 mila euro — verrebbero stanziati 5 miliardi a regime. La misura scatterà però a giugno (qualcuno insiste su aprile in concomitanza con la tornata di elezioni regionali) e quindi quest’anno costerà circa la metà. Altrettanto dovrebbe essere stanziato per i provvedimenti “green” contro l’inquinamento.
Tutto questo non potrà essere “coperto” con la sola rimodulazione dell’Iva né con la flessibilità sul deficit. Una parte dovrebbe essere compensata con la chiusura di alcune finestre — al momento trimestrali per i dipendenti e semestrali per gli autonomi — che permettono l’accesso alla pensione con quota 100. La legge voluta da Salvini non sarà quindi cancellata ma verranno introdotti dei nuovi paletti temporali.
L’altro aspetto — connesso alla lotta all’evasione fiscale — riguarda le cosiddette tax expenditures, ossia le agevolazioni che normalmente assumono la forma di deduzioni e detrazioni. In Italia costituiscono una gigantesca e intricata selva, spesso a vantaggio di pochissimi contribuenti, che genera minori entrate per le casse pubbliche di oltre 75 miliardi l’anno. Il governo intende provare a disboscarla: «Ma senza impatto sociale ». Ossia, non danneggiando le fasce di reddito più basse. E con un obiettivo: rintracciare circa cinque di quei 75 miliardi. Lavoro complicato, non solo per il labirinto di soluzioni stratificatesi nei decenni, ma perché le due voci più consistenti sono anche quelle socialmente più sensibili. Si tratta delle agevolazioni per la casa (26 miliardi) e quelle per la salute (18 miliardi). È allora possibile che per gli immobili venga prevista una revisione delle detrazioni-deduzioni in relazione ai redditi più alti. In questo perimetro, come spesso è accaduto negli ultimi decenni, mancano gli investimenti. Sul tavolo ci sono 50 miliardi, ma in 15 anni. Pochi per un “boost” all’economia italiana.