Ormai il “nuovo” Conte – assai più consapevole dell’avvocato Conte – si muove con autorità anche su importanti questioni di potere, che non lo riguardano direttamente: venerdì nel chiuso di palazzo Chigi il ministro dell’Economia del Pd, Roberto Gualtieri, dopo un amabile scambio di opinioni, ha chiesto al presidente del Consiglio se ci fossero obiezioni sulla nomina a suo Capo gabinetto di Roberto Garofoli, che aveva svolto lo stesso incarico con Pier Carlo Padoan e con Giovanni Tria. Conte ha risposto che no, a suo avviso quella nomina (che in termini di potere vale molto più di un ministero) non sarebbe adatta. Al di là del gesto irritualmente garbato del ministro, la risposta di Conte dimostra un’attitudine al controllo della “macchina” governativa che 14 mesi fa non aveva (restò a lungo senza staff), ma soprattutto una forza politica che oggi il presidente del Consiglio è chiamato a confermare con il discorso programmatico che alle 11 pronuncerà davanti ai deputati.
Certo, dal punto di vista dello spettacolo puro, la scena più promettente si preannuncia quella in programma domani alle cinque della sera: nell’austera aula di Palazzo Madama prenderà la parola Matteo Salvini, tornato senatore semplice. E mezzora più tardi toccherà al capo del governo replicare, contando prevedibilmente sugli applausi e sull’appoggio dei senatori del Pd che sino ad un mese fa, consideravano l’allora (e attuale) presidente del Consiglio un mediocre esecutore dei voleri salviniani.
Una sequenza originale che concluderà la sessione dedicata alla fiducia al nuovo governo. Ma un conto è lo spettacolo e un conto è la politica. Le parole d’ordine del discorso di Conte saranno la prefigurazione di una «stagione riformista», l’invocazione di un «europeismo critico» (di chi accetta la sfida comunitaria ma non in modo acritico) e anche di una opportuna «grammatica istituzionale». Poi nelle prossime settimane si passerà all’azione concreta di governo e su questo piano resta l’ incognita sulla qualità dei rapporti tra il Presidente del Consiglio e le due forze politiche. Non tanto col Pd. Concludendo la festa dell’Unità, Nicola Zingaretti ha detto che col nuovo governo «si chiude la stagione del populismo», quel populismo che proprio Conte aveva orgogliosamente rivendicato nel discorso di insediamento dell’esecutivo giallo-verde.
Ma nella stagione dell’irrilevanza delle parole, non saranno queste etichette a guastare i rapporti tra il Pd e Conte. Tanto più che proprio Zingaretti ha già deciso di delegare al capo-delegazione Dario Franceschini la gestione dei dossier di governo. Conte sa già che semmai dovrà misurarsi la palla con i Cinque stelle, oramai divisi in due “tribù”: quella Conte-Casalino che ha in Beppe Grillo il suo ispiratore; quella Di Maio e dei ministri e che ha in Davide Casaleggio il suo capofila.
Venerdì scorso, nel primo giorno di attività del governo, Luigi Di Maio ha invitato alla Farnesina gli altri nove ministri, quasi a voler marcare il territorio, a far capire chi sia a guidare l’azione dei ministri a Cinque stelle. Per scongiurare da subito ogni tentazione di Conte di diventare lui il punto di riferimento e poi il capo del Movimento. Il presidente del Consiglio, restato in sella anche perché ha dimostrato di essere uomo del “sistema”, è in attesa di capire come Di Maio si rapporterà col governo: totale adesione, stimolo critico, stop and go alla Salvini? Ieri la prima mossa: sul Blog delle Stelle è comparso un post con una grafica che rappresenta il Consiglio dei ministri: i posti marcati col colore giallo sono i dicasteri pentastellati, con tanto di nome del titolare. Gli altri ministeri, marcati di rosso, sono anonimi. Il tutto guarnito da due scritta: «Orgogliosi di questa sfida», «Uniti e compatti per cambiare il Paese». Del Pd non c’è traccia. Messaggio subliminale ma non troppo alla base: abbiamo vinto anche stavolta. Ma per noi c’è un solo colore: il giallo.