È la recessione più annunciata degli ultimi anni, se davvero la Germania vi è caduta dentro. Dal Dieselgate sulle emissioni di Volkswagen quattro anni fa — e da come il gruppo evitò buona parte delle sanzioni in patria — era chiaro che l’influenza dell’industria tedesca sul governo non è solo quella che si vede alla luce del sole. Da tre anni era emerso che la prima economia europea non ha investito abbastanza nel digitale e nelle tecnologie che trasformano la sua industria più vitale, l’auto. Da due poi la Germania, così squilibrata sull’export e sulla domanda finanziata da altri Paesi, si è scoperta vulnerabile ai dazi di Donald Trump. Infine da oltre un anno aveva iniziato a rallentare, da quando è finito il «quantitative easing» della Banca centrale europea che molti tedeschi hanno vissuto come un torto. Ora arriva la conferma. Dopo i mesi di lieve contrazione fra aprile e giugno, l’economia tedesca resta in difficoltà. In agosto per il quinto mese di seguito l’indice Ifo sul clima per le imprese è caduto, più delle attese. Nel manifatturiero l’Ifo è ai minimi dal terribile 2009, mentre anche i servizi iniziano a essere toccati dalla gelata. Da dieci anni una recessione tedesca non era mai stata tanto vicina e in sé non c’è niente di patologico, dopo una lunga fase positiva. La disoccupazione resta ai minimi, gli scambi con l’estero generano quasi 300 miliardi di risparmi l’anno e la finanza pubblica è così solida che il debito ha rendimenti negativi (si paga per prestare denaro alla Germania) fino a scadenze di trent’anni. Il settore privato e il governo di Berlino hanno i mezzi per rispondere alla frenata, se vogliono. Ciò che sorprende Berlino, e sta cambiando le politiche europee, è qualcos’altro: non sembra più solo un normale cambio di stagione, perché un intero modello forse è da rivedere. La dipendenza diretta dall’export di quasi il 40% del prodotto tedesco è troppo alta, mentre le guerre commerciali della Casa Bianca continuano e lambiscono l’Europa. E la Germania siede al centro di un continente che non ha colossi digitali come quelli cinesi o americani. Viene di qui l’idea in preparazione a Bruxelles nella futura Commissione Ue della tedesca Ursula von der Leyen di un «fondo sovrano» da 100 miliardi, finanziato dai governi, per aiutare i campioni tecnologici europei a crescere. Berlino in difficoltà vede oggi l’Europa come uno scudo protettivo. Pochi mesi fa, osteggiava un budget molto più piccolo per sostenere i Paesi fragili dell’euro. Presto invece chiederà a tutti gli altri governi di contribuire a finanziare, tramite il fondo sovrano Ue, i propri gruppi tecnologici. Una buona idea che dimostra come il segno del potere non sia il comando. È nel saper trasferire, se serve, i propri problemi sugli altri.