Il meeting di Comunione e Liberazione si è chiuso — con un rinnovato successo — mentre la crisi di governo è ancora aperta e di conseguenza viene facile porsi domande di connessione. A cominciare da questa: quante probabilità di successo ha l’Opa (ostile?) che Matteo Salvini ha avviato da tempo sull’elettorato cattolico? Prendendo i dati di una ricerca Ipsos sul voto europeo sappiamo che i consensi per la Lega sono stati del 30,1% tra i «cattolici praticanti ed impegnati», ma crescono via via che cala la frequentazione di parrocchie e riti fino a lambire il 40% tra i non praticanti. Per avere un termine di raffronto tra i praticanti/impegnati il Pd è al 28,1% ma tra i non praticanti arriva solo al 18%. Il dato ancor più interessante riguarda la penetrazione della narrazione salviniana in tema di migranti: la linea intransigente dei porti chiusi è condivisa dal 51% dei cattolici, praticanti o meno. Ho ricordato questo dato a un dirigente di Cl e mi ha confessato che avrebbe sospettato una cifra più elevata. Ma come è possibile che ciò avvenga quando il Papa in prima persona non perde occasione per contrastare la linea sovranista in materia di sbarchi?
La risposta c’è: il conflitto con Salvini è una scelta del Vaticano che non si trasmette in automatico alle strutture sul territorio. L’episodio del parroco di Sora che nell’omelia di pochi giorni fa attacca i migranti fa il paio con un altro episodio di un parroco del Lecchese che sosteneva invece le ragioni umanitarie ed è stato contestato dai fedeli che hanno abbandonato la messa. A Salvini è riuscito un colpo da biliardo: far passare la contrapposizione tra gli ultimi e i penultimi. Una significativa fetta del popolo cattolico non si indigna per l’uso strumentale del rosario ma contesta la priorità assegnata dalla Chiesa ai migranti a scapito di una maggiore attenzione al disagio del ceto medio italiano. Da qui un’adesione all’Opa leghista con doppia valenza: Salvini è visto come un sindacalista dei penultimi e aderendo al suo storytelling si fa sapere al Vaticano di non condividere quella gerarchia dei problemi. Naturalmente il leader leghista ha dalla sua anche altri vantaggi (ereditati): agli occhi dei cattolici si presenta come il difensore della famiglia tradizionale e delle culle piene contro la sinistra delle unioni civili, dell’ideologia gender e dei gay pride. Che poi Salvini non abbia varato policy per la famiglia/demografia conta poco.
I ciellini che hanno affollato i dibattiti del Meeting vivono anch’essi con queste contraddizioni ma gli organizzatori hanno scelto di non farle venire allo scoperto. Del resto da sempre il format riminese evita di istruire dibattiti in contraddittorio, la dirigenza non crede alla dialettica degli opposti (giudicata tardo-illuminista) ma pensa che sia più utile procedere per testimonianze ed esempi.
Nell’attesa che il metodo possa venir riconsiderato, le larghe platee dei dibattiti mostrano un evidente invecchiamento anagrafico. Al Meeting manca quasi del tutto la generazione dei 35-40enni ma l’annotazione più interessante da un punto di vista antropologico-culturale riguarda proprio gli over 65: non sono molto differenti da quelli che 40 anni fa erano i loro avversari, gli ex giovani di sinistra che ancora oggi frequentano festival ed eventi del Pd o delle altre sigle. Coltivano la stessa tensione ad imparare, anche da anziani, e nutrono la comune volontà di trasmettere conoscenze e valori alle giovani generazioni.
Ma riuscirà questa tensione cognitiva e pedagogica a trasformarsi in una proposta politico-culturale capace di respingere l’Opa ostile? La risposta più intrigante ascoltata a Rimini è venuta sorprendentemente da Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario leghista di Palazzo Chigi che però fa parte da anni dell’intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Ai più Giorgetti è sembrato ancora legato alla cultura «varesina» del Carroccio (Salvini è milanese, non un leghista di territorio) che vedeva nelle autonomie, nel federalismo e nella sussidiarietà lo strumento per avvicinare politica e popolo.
Ma proprio in virtù di questa sua posizione — eccentrica nella stagione della Bestia — ha sfidato i colleghi parlamentari: posso anche dire che sono con voi sui principi della buona politica, della società di mezzo e dei corpi intermedi ma sappiate che oggi sono armi spuntate. Non riescono più a fare da filtro «con la piazza». La partecipazione politica è stata sostituita dai social come i sacerdoti hanno ceduto il passo agli psicologi. O create e creiamo «qualche altro luogo» capace di reintermediare o tutti i discorsi che fate suoneranno come un disco rotto. Non si torna indietro, la democrazia si reinventa o si deteriora. Che un discorso così venga da uno dei principali collaboratori di Salvini è un’altra delle italiche bizzarrie che non riuscirei mai a spiegare a un collega straniero.