La crisi di governo fa subito vacillare il precario equilibrio della finanza pubblica italiana e apre la strada — se a causa di nuove elezioni non si riuscirà ad approvare la legge di Bilancio entro i tempi stabiliti — a un aumento delle aliquote Iva che il prossimo anno peserebbe per 23 miliardi.
L’aumento dell’Iva è infatti già nero su bianco. Proprio la legge di Bilancio per il 2019 prevede una “clausola di salvaguardia”, concordata con la Commissione europea, secondo cui nel 2020 l’aliquota ordinaria dovrà passare dall’attuale 22% al 25,2% e quella agevolata dal 10 al 13%. Il rialzo delle aliquote è destinato a scattare dal primo gennaio del prossimo anno e rappresenta per l’appunto la garanzia, chiesta dall’Europa, che l’Italia applichi in automatico un certo rigore fiscale; questo accadrà a meno che prima di quella data la stessa “clausola di salvaguardia” non venga disinnescata da leggi specifiche che prevedono tagli alle spese o maggiori entrate fiscali che nel complesso raggiungano i 23 miliardi. Non per tutti un aumento delle imposte indirette è un tabù. Lo stesso ministro dell’Economia Giovanni Tria, ad esempio, non è considerato contrario a un aumento selettivo delle aliquote Iva. Ma in generale qualsiasi rialzo dell’Iva rischia di non essere assorbito da chi vende beni e servizi e di ripercuotersi quindi sui consumatori finali. Una scappatoia potrebbe essere un decreto che posticipi l’entrata in vigore della “clausola di salvaguardia”, ma per farlo ci vorrebbe l’ok tutt’altro che prevedibile – di Bruxelles.
Se si andrà alle urne in ottobre — la previsione più gettonata ieri — il governo avrà circa due mesi per formarsi e per provare a varare la legge di Bilancio per il 2020, che deve essere approvata entro il 31 dicembre di quest’anno. Non è scontato che ce la faccia e che in quella manciata di settimane riesca ad individuare le spese da tagliare e — come vorrebbe la Lega — le tasse da ridurre. Se il 31 dicembre dovesse passare senza che la manovra 2020 sia approvata, dal primo gennaio scatterebbero in contemporanea l’aumento delle aliquote Iva e il cosiddetto “esercizio provvisorio”, ossia un periodo che può durare al massimo quattro mesi, nel quale il governo in carica deve limitarsi a spendere ogni mese un dodicesimo di quanto ha speso nel complesso l’anno precedente. In questo quadro non ci sarebbe ovviamente lo spazio per iniziative di riduzione delle tasse.
Le alternative? Una, per assurdo, potrebbe essere quella di una legge di Bilancio varata ben prima della scadenza, magari entro agosto. Ma ovviamente questa ipotesi si scontra frontalmente con una maggioranza ormai allo sbando, che non consentirebbe l’approvazione di una legge di Bilancio. Se invece delle elezioni si passasse a un governo tecnico o “di scopo”, i tempi tecnici per l’approvazione — ferma restando l’intesa sui contenuti — ci potrebbero essere.
I mercati finanziari danno comunque per ora segni di limitato turbamento. Lo spread tra i Btp e i Bund tedeschi ha avuto un rialzo verso l’alto, sensibile ma non stratosferico: dai 200 punto della vigilia a una chiusura a 209 punti, dopo aver toccato quota 211. E la Borsa di Milano non ha visto fuga degli investitori, anzi, ha chiuso il rialzo dell’1,47%. Oggi l’agenzia di rating Fitch dovrebbe esprimere il suo giudizio sul debito italiano, preparato però prima che scoppiasse al crisi delle ultime ore. I motivi per le reazioni tutto sommato blande sono in sostanza due. Il primo è che in queste settimane hanno assai più importanza le notizie che arrivano dallo scenario globale — guerra dei dazi, rallentamento dell’Eurozona e in particolare della Germania, con conseguenti reazioni della Bce — che non le vicende di casa nostra. Tanto è vero che anche mentre i dissidi tra i due alleati di governo si andavano acuendo, al ministro dell’Economia si ragionava sulla prossima legge di Bilancio temendo come fattori negativi non tanto le diverse richieste dei due partiti — assai più sommesse nelle trattative di governo rispetto ai toni urlati in piazza — ma proprio lo stato dell’economia mondiale e di quella tedesca in particolare. Il secondo motivo di uno spread che (ancora) non balza è invece da cercarsi proprio nell’esercizio provvisorio: l’ipotesi che per alcuni mesi l’Italia possa e debba limitarsi nella spesa, senza esercitarsi in arditi esperimenti con la flat tax o il cuneo fiscale, è proprio per gli investitori stranieri la garanzia di una disciplina di bilancio che Roma, volente o nolente, dovrà seguire. Diverse e meno gradevoli, ovviamente, le conseguenze per gli italiani, che oltre a non vedere un calo della pressione fiscale avrebbero prezzi probabilmente in rialzo.