Sembra di vivere in un Paese surreale. La politica evoca un “mondo” che non ha relazioni con la realtà sensibile. La realtà è la seguente. L’economia italiana, secondo i dati Istat di pochi giorni fa, è in una condizione di stagnazione. Diminuisce la disoccupazione, grazie però a lavori part-time e a bassa qualificazione. Gli investimenti privati sono in calo e le nostre esportazioni sono fragili, secondo un rapporto appena pubblicato di Andrea Montanino del Centro Studi di Confindustria. Il Mezzogiorno italiano è in una situazione di vero e proprio depauperamento, secondo i dati dello Svimez resi pubblici un paio di giorni fa. Il suo Pil è al di sotto dello zero. Negli ultimi 15 anni, ben 2 milioni di persone hanno abbandonato le regioni del Sud, per cercare lavoro e opportunità nel Nord (dell’Europa oltre che dell’Italia). Almeno un quarto di chi se ne è andato ha una laurea o una istruzione professionale.
Invece, la politica è la seguente. I due vicepremier hanno fatto del litigio un vero e proprio mestiere, anche se i parlamentari dei rispettivi partiti convergono regolarmente sulle poche leggi messe ai voti in Parlamento. Le due forze di opposizioni sono divise al loro interno sul grande problema teologico, con quale parte del governo allearsi (per ritornare al governo)? Si capisce perché, come ha mostrato il sondaggio pubblicato da questo giornale venerdì scorso, quasi tre quarti degli italiani vogliono nuove elezioni (che potrebbero produrre esiti contradditori, dato l’attuale sistema elettorale). Come se ne esce?
Solamente in un modo: riportando la crescita al centro del dibattito pubblico. Un Paese che non cresce economicamente è destinato ad un declino irreversibile anche culturalmente. Per riportare l’Italia su un sentiero di crescita, occorre però fare i conti con il problema del nostro (enorme) debito pubblico. Quel debito è dovuto a scelte fatte da governi e parlamenti italiani, almeno dagli anni Novanta del secolo scorso. Dietro quel debito c’è l’idea che la spesa pubblica debba servire a garantire consenso elettorale prima ancora che sviluppo economico.
L’attuale governo agisce come se fossimo entrati (addirittura) nell’epoca del post-lavoro. La creazione di lavoro non è una priorità, mentre è divenuta una priorità consentire alle persone di non lavorare (anticipando l’età pensionabile oppure distribuendo reddito di cittadinanza). Così, gli investimenti infrastrutturali sono stati bloccati, anche là dove vi erano fondi da tempo stanziati. Il programma di “industria 4.0” è stato chiuso, nonostante gli effetti positivi che aveva avuto sulla modernizzazione degli impianti produttivi.
Le risorse destinate alla ricerca e all’istruzioni sono tra le più limitate d’Europa, mentre si parla di una de-fiscalizzazione che metterebbe ancora più in difficoltà le finanze pubbliche, centrali e locali. I pochi provvedimenti approvati hanno sempre un nome ed un cognome, le partite Iva del centro-nord oppure la disoccupazione nascosta nel lavoro nero del centro-sud.
Il governo del cambiamento ha smarrito l’idea dell’Italia, ma ha conservato quegli aspetti di politica pubblica che sono la causa del nostro declino. Né un’idea di sviluppo è emersa dalle opposizioni, tanto meno delle proposte concrete. Come si può crescere, senza strategie precise (e condivise) per riportare sotto controllo il debito pubblico?
La riduzione del debito pubblico e il rilancio della crescita dipendono da noi, ma non solo da noi. L’Italia è all’interno di un sistema di integrazione monetaria che garantisce la nostra stabilità finanziaria in cambio del rispetto di regole che presiedono al coordinamento tra gli stati membri di quel sistema (l’Eurozona).
La natura di quelle regole è influente sulle modalità della crescita degli stati che le condividono. Una maggioranza di italiani non è soddisfatta con il funzionamento dell’Eurozona, una maggioranza ancora più grande di italiani sarebbe insoddisfatta se uscissimo dall’Eurozona.
Si tratta di una contraddizione che ha contribuito non poco all’ascesa del populismo antieuropeista che ritiene di governarci dal Papeete Beach o dalla piattaforma Rousseau. Una contraddizione che caratterizza anche altri Paesi dell’area mediterranea. Come la Francia, dove i populisti di destra e di sinistra rappresentano quasi la metà dell’elettorato, come la Spagna dove non si riesce a formare una maggioranza stabile nonostante le continue elezioni, come la Grecia che sta uscendo a fatica da una crisi sociale senza precedenti. Una contraddizione sconosciuta nei Paesi del nord, in quanto la logica di funzionamento dell’Eurozona è coerente con la loro struttura di political economy (che combina modello produttivo e organizzazione degli interessi).
Tuttavia, il funzionamento dell’Eurozona non è stato deciso in cielo, ma nelle negoziazioni tra gli stati che ne fanno parte. Però, mentre le leadership governative della Francia e della Spagna hanno elaborato una interpretazione del funzionamento asimmetrico dell’Eurozona (avanzando quindi proposte per un suo riequilibrio), i nostri leader di governo sanno solamente inveire contro l’Europa “tedesca”.
Né le opposizioni hanno qualcosa da dire. Eppure, tra poche settimane si avvierà la procedura per la stesura della legge di bilancio 2020, con relativa negoziazione con la nuova Commissione (che sarà di già operativa, anche se formalmente inizierà il 1° novembre). Ad oggi, non sappiamo neppure quale portafoglio avrà l’Italia in quella Commissione, ancora di meno chi sarà il candidato del governo italiano al ruolo di commissario. Come possiamo riportare l’Italia su un percorso di crescita, se non abbiamo una strategia e degli alleati per rendere meno asimmetrico il funzionamento dell’Eurozona?
La politica non può stare a lungo dissociata dalla realtà. Se ciò avviene, sono guai. Si pensi all’Argentina, uno dei Paesi più sviluppati negli anni Trenta del secolo scorso, divenuto un Paese sottosviluppato pochi decenni dopo per via dell’incompetenza populista delle sue classi politiche.
Certamente, l’Italia di oggi dispone di maggiori anticorpi rispetto all’Argentina di allora (grazie all’Europa). Tuttavia, l’Europa non basta, se le nostre forze economiche, culturali, associative non alzano la voce per riportare la politica alla realtà. Non c’entra la destra o la sinistra. C’entra l’interesse nazionale dell’Italia a ritornare a crescere economicamente e culturalmente.