C’è stato solo un breve istante nel quale giovedì scorso Mario Draghi ha perso l’autocontrollo che gli permette di non tradire mai emozioni in pubblico. È arrivato otto minuti dopo le 15, quando un giornalista tedesco gli ha posto una domanda. Il reporter ha iniziato a formularla: «Di recente – ha detto – il presidente americano Donald Trump ha di nuovo accusato l’Europa di manipolazione valutaria…». È a quel punto che il presidente della Banca centrale europea l’ha interrotto, come non fa quasi mai. «Un’altra volta?», gli ha chiesto. «Non ne ero al corrente…», ha aggiunto lievemente in imbarazzo.
La scena è durata pochi attimi e se ne ricordano rari precedenti, negli otto anni di Draghi a Francoforte. Solo un’altra volta il presidente della Bce aveva interrotto una domanda, nel 2012, quando una giornalista gli disse che in quel momento i mercati dei titoli di Stato stavano crollando mentre lui parlava. Allora si era all’apice della crisi dell’euro e anche in quell’occasione Draghi interruppe solo perché voleva saperne di più. Ma la tensione era evidente.
Oggi non dovrebbe essere così, perché la zona euro è in condizioni diverse. In buona parte grazie alla Bce l’economia dell’area cresce da sei anni, in molti Paesi il tasso di occupazione è il più alto di sempre e persino in Grecia i rendimenti dei titoli di Stato a dieci anni sono scesi al di sotto di quelli americani. Ma le accuse che Trump muove all’Europa – voler scatenare una guerra sul cambio – restano un tasto scoperto. Due tweet del presidente americano hanno preso di mira Draghi in giugno, dopo che il banchiere centrale italiano ha segnalato di volere una politica monetaria più espansiva. «Mario Draghi – ha scritto Trump – ha appena annunciato nuovi stimoli, cosa che ha immediatamente fatto scivolare l’euro contro il dollaro, rendendo più facile la concorrenza sleale delle aziende europee. Vanno avanti così da anni, come la Cina e altri». Una polemica di stagione, forse. Magari però anche il sintomo di ciò che attende l’Europa in un’epoca di bassa crescita, protezionismo e espansione monetaria giunta ormai ai massimi storici.
Giovedì scorso in conferenza stampa, Draghi ha offerto una risposta impeccabile. «Non abbiamo il tasso di cambio come obiettivo – ha detto -. Consideriamo l’accordo internazionale per evitare le manipolazioni valutarie un pilastro del multilateralismo». Ed è certo che il presidente della Bce intendesse esattamente ciò che ha detto: nessuno oggi persegue una strategia di svalutazione dell’euro. Dal picco di fine settembre l’euro ha perso circa il 5% sul dollaro e sullo yuan cinese, il 9% sullo yen giapponese. Ma più che un disegno, è il riflesso di un’economia che nell’area euro e in Germania stanno andando – parole di Draghi – «sempre peggio» sullo sfondo delle guerre commerciali.
La questione valutaria però resta, a maggior ragione ora che le banche centrali tornano protagoniste. La Bce lavora un pacchetto di misure per settembre. A Washington la Federal Reserve sta preparando per questa settimana il primo taglio dei tassi da oltre dieci anni. I bilanci delle due banche centrali, come quelli della Bank of England e della Banca del Giappone, sono molte volte più vasti di prima della crisi grazie alla più grande campagna di interventi che la storia ricordi. La Banca del Giappone non li ha mai interrotti, la Bce potrebbe riprenderli.
Il paradosso è che più continua questo attivismo, meno esso è efficace nel rilanciare gli investimenti dato che i tassi di mercati già oggi sono bassissimi o negativi. Circa undici mila miliardi di euro nel mondo sono investiti con rendimenti nominali sotto zero. Draghi stesso parla di «rendimenti decrescenti» delle politiche espansive della Bce. Un recente sondaggio fra 50 dei principali macroeconomisti europei (fra loro gli italiani Fabrizio Zilibotti, Lucrezia Reichlin, Eliana La Ferrara, Veronica Guerrieri, Francesco Giavazzi e Elena Carletti) fa emergere lo stesso scetticismo: nettamente più numerosi sono quelli convinti che ci sia poco oggi che la Bce possa fare per «aumentare o mantenere» la crescita nell’area euro. Non è molto diverso il quadro per Stati Uniti, Cina, Giappone o Gran Bretagna.
È per questo che alcuni grossi investitori iniziano a sospettare che proprio le guerre valutarie siano la nuova, pericolosa frontiera del prossimo decennio. Molti potrebbero perseguire un tasso di cambio debole a spese dei Paesi concorrenti, per esportare di più e rianimare l’economia sottraendo domanda al resto del mondo. È l’orizzonte dell’economia globale negli anni ‘20 di questo secolo secondo Ray Dalio, leader e fondatore di Bridgewater (che con 133 miliardi di dollari, è il più grande fondo speculativo a leva nel mondo). Con il suo fiuto per i terreni di conflitto, Trump lo ha capito e prende posizione. Con la sua competenza, Draghi sa che una guerra valutaria è un rischio reale ora che anche le armi non convenzionali delle banche centrali sembrano spuntate. La massa di debito delle economie avanzate può spingere in quella direzione, a maggior ragione ora che i governi dovranno pagare per le pensioni e la sanità di centinaia di milioni di baby boomers. Conclude Dalio: «È il momento di chiedersi quale sia il bene rifugio migliore, quando i banchieri centrali di gran parte delle valute di riserva vorranno svalutare la propria moneta». Per allora, ci mancherà la capacità di Draghi di nascondere le emozioni.