Ci sono due modi per pensare ad eventi e manifestazioni. Il primo, è più diffuso, interpreta l’evento come operazione di puro marketing, cosmetica aziendale o di territorio insomma. Manifestazioni vuote di contenuti, adatte più a professionisti del buffet finale che a raccogliere pensieri e idee.
Da quando siamo nati abbiamo sempre aborrito manifestazioni del genere ed abbiamo costruito invece un network di eventi capaci di diventare strumenti di lettura della realtà economica, sociale e culturale. Più editori di magazine di approfondimento che agenti alla ricerca di publiredazionali, per fare un paragone di tipo editoriale.
Open Factory, la manifestazione che chiuderà anche quest’anno la nostra rete di eventi del 2019 – dopo le tappe autunnali di Trieste Next, Città Impresa e WeFood – non sfugge a questa nostra regola. “Aprire le fabbriche” e portare i visitatori nei luoghi della produzione è ormai una scelta che applichiamo a tutti i nostri progetti – dalle Fabbriche della Sostenibilità della Green Week fino alle aziende innovative del Galileo Festival – e ha una ragione ben evidente: entrando dentro ai luoghi della produzione, materiale o immateriale che sia, si riesce a comprendere davvero molto di come il nostro mondo stia cambiando.
Girando dall’una all’altra di queste aziende si imparano molte cose. Le Open Factory sono come bandierine sulla cartina della nostra Penisola che tracciano una geografia di anno in anno diversa. Oltrepassate le porte delle fabbriche, si respirano il clima e gli umori che attraversano l’economia del nostro Paese – dalla crisi del 2015 all’ottimismo del 2017 all’incertezza attuale. Gli imprenditori ci chiedono di portare da loro tanti giovani, perché, se oggi manca qualcosa, non è il lavoro ma sono i lavoratori.
La seconda cosa che si impara riguarda la qualità di questo lavoro e dei lavoratori che sono necessari per correre lungo i binari di questa ripresa. I lavori sono sempre più qualificati (4.0 per usare una sigla di moda) e altrettanto lo devono essere i nostri lavoratori. Bisogna rafforzare la formazione e la cultura tecnica sul territorio – sia a livello di istruzione superiore sia, soprattutto, a livello di università – e, probabilmente, bisogna dar vita a una nuova ondata di immigrazione qualificata. Servono ingegneri, informatici, tecnici, che bisognerà andare a cercare in tutto il mondo per evitare di perdere, in partenza, la corsa globale.
Il terzo insegnamento che si trae dalla scoperta delle Open Factory è questo. Le nostre imprese, anche quelle più grandi, sono nei fatti dei super artigiani tecnologici. Vivono, crescono e stanno sul mercato proprio perché lavorano sulle esigenze specifiche e flessibili dei loro clienti. Una realtà che era stata intuita già anni fa da chi ha ispirato questa manifestazione, l’economista Stefano Micelli, che, oltre a questo aveva capito che c’era lo spazio culturale per raccontare la nuova manifattura digitale.
A Open Factory vedremo in scena la parte migliore di questi territori. Le industrie e gli artigiani che guardano al futuro, che si aprono al mondo e che accettano le sfide della globalizzazione. Speriamo che questa sia la parte capace di trascinare anche chi, in questi ultimi anni, ha scelto di chiudersi e rischia di morire soffocato in battaglie di retroguardia e dall’incapacità di proiettarsi nelle nuove dimensioni che il mercato oggi richiede.