«Fare azienda in Italia è da incoscienti». Parla schietto, Barbara Bonaventura marketing manager della padovana “Experenti”, al punto da mettere quasi in difficoltà la giornalista Francesca Gambarini che al festival guida l’incontro sulle start up e molti altri. Ma si fa subito capire: la sua azienda che offre servizi informatici di alta qualità (realtà aumentata e altro) anche a colossi come Siemens o a quelli del biomedicale, spiega Bonaventura, è “100% made in Italy””, e anzi ha la rara qualità di essere quasi tutta fatta da ingegneri donne capacissime nel coniugare eccellenza tecnologica e cura del dettaglio (lì accanto c’è Marialuisa Pezzali che presenta il suo libro “Ai love women” su 11 esempi di donne che stanno costruendo futuro nel digitale, nella robotica , nei big data). Ma Experenti ha sede legale negli Usa perché se no «gli investitori si spaventano quando sentono parlare di Italia: non c’è alcuna certezza di regole stabili, leggi, e quindi tendono a non investirci soldi».
Ma anche se le difficoltà sono enormi, chi si tuffa nell’avventura di una start up «va avanti solo se è un grande sognatore, e se è perfettamente cosciente che non conta certo l’avere avuto una bella idea, ma il saperla tradurre in produzione di valore, tanto che spesso questo non riesce nemmeno a chi l’idea dell’impresa l’ha avuta per prima ma a chi ha saputo realizzarla a livello di “business plan”». Al “business plan” non ci ha pensato per oltre 10 anni, confessa, Matteo Fabbri socio amministratore della ferrarese “TryeCo 2.0”, che però è partito grazie a mini-finanziamenti di parenti e amici e da 13 anni riesce a smentire quel famoso ministro Tremonti che sentenziò che “con la cultura non si mangia”: la società di Fabbri offre servizi integrati per la scansione e riproduzione fotorealistica e in 3D di tesori della cultura del mondo: è sua la riproduzione del tetto del tempio di Bel di Palmira nel Museo nazionale di Damasco. Adesso il “business plan” ce l’ha e l’azienda cresce anche con il sogno di poter ricreare davanti agli occhi dei turisti mostre di tesori e luoghi che nella realtà non ci sono o sono distantissimi.
E poi c’è Niccolò Cipriani con la sua “Rifò” di Prato che rigenera i vestiti usati e ha creduto già anni fa nel valore del mercato del tessuto “al 100% riciclato”, ha un fatturato al 60% formato da ordinazioni estere, vuole fare affari combattendo la sovrapproduzione e il sovraconsumo di indumenti (con il relativo smaltimento di masse di scarti in discariche o inceneritori) secondo una logica da “slow food”: riutilizzo di tessuti usati per cui in futuro “mi porti i tuoi jeans e te ne ricavo un maglioncino”. Scommesse, che vivono anche della capacità di avere consumatori e clienti diversi, quelli che Cristina Pozzi cerca di formare con la sua “Impactscool” e col libro “Benvenuti nel 2050”.
Il Giornale di Vicenza, 9 giugno 2019