Qualcuno – per la verità i più, ormai – una «sensibilità verde» ce l’ha. Altri, dipendesse solo dalle convinzioni personali, forse non sarebbero così attenti e virtuosi. Poi scoprono che a favore della sostenibilità ambientale gioca un’arma formidabile: aiuta il business. Di più. È diventata un fattore di competitività internazionale. Per le grandi firme del lusso mondiale, per dire, sfoggiare un’«etichetta eco-compatibile» sarà anche solo una questione di marketing. E può essere che per i loro ricchi clienti comprare green sia soltanto un modo (trendy) per mettersi la coscienza a posto. Non ha importanza. Ciò che conta è che, per poter anteporre il prefisso «eco» al loro brand, i signori del fashion di ogni tipo partono dalla base della catena produttiva. Ai loro fornitori non basta più offrire qualità e tecnologia, per battere la concorrenza, e meno ancora conta il prezzo: per i big non è un problema, al contrario, riconoscere un «plus ambientale» a chi è in grado di garantire il rispetto della sostenibilità lungo l’intero processo.
Vale nella moda, come hanno raccontato i protagonisti del Meet The Champions di poche settimane fa a Prato, e in qualunque altro settore. Ne riparleremo ancora venerdì, a Thiene, ma adesso che il giro nell’Italia dell’eccellenza sta per finire (tappa conclusiva il 10 giugno, a Napoli) il quadro è già inequivocabile: i Campioni emersi dall’analisi L’Economia-ItalyPost sono tali anche sul fronte green. La voce «ambiente», nei loro bilanci, non è considerata un costo: è un investimento in uno dei nuovi fattori di competitività.
Che la logica sia vincente lo confermano gli stessi Champions. Che sia anche una logica acquisita, nel Paese, lo smentisce l’Istat. Gli ultimi dati dicono che sì, gli investimenti «ambientali» delle industrie sono bassi ma in aumento: 1,437 miliardi, +,2,3%. La sorpresa è che non è merito delle grandi imprese (anzi, hanno tagliato: –0,4%). Sono le Pmi, a crederci (+13%). Qualunque sia la motivazione, sostenerle anche in questo non sarebbe una cattiva idea.