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27 luglio 2017. L’odore di zolfo è quasi insopportabile, fa un caldo infernale e i piedi sembrano voler scoppiare. Il mio sguardo si perde nella pianura infinita, sommersa dalle colate laviche che si sono susseguite nei millenni e che il tempo ha trasformato in colline più o meno tondeggianti. Poche ora fa, prima di arrampicarmi su questa collina vulcanica contornata da zolfatare, il respiro, ora corto per la ripida salita, mi si è fermato, rapito dalla meraviglia di un lago reso turchese dallo zolfo presente nelle sue acque bollenti. Sono in Islanda, ho sognato questo viaggio fin da bambina, affascinata da una terra dove la natura si esprime in tutta la sua indomita potenza.
Per anni ho studiato i percorsi e le meraviglie naturali che avrei potuto ammirare, respirare e toccare con mano. Per anni ho immaginato come sarebbe stato essere qui. Ho potuto farlo grazie alle immagini, ai video, ai documentari e ai racconti di chi, prima di me, ci era già stato, e ho organizzato il viaggio leggendo e sfogliando la tipica guida turistica alla ricerca di preziosi consigli.
È andata esattamente come mi aspettavo? Direi di no. Non riesco a stare al passo con la quantità di meraviglie naturali che mi appaiono a ogni angolo di questa terra misteriosa. Le deviazioni improvvisate sono tra le cose più sorprendenti. Ho sbagliato qualcosa, questo è certo. Mi fanno male i piedi: dovevo portare delle scarpe più leggere, per affrontare anche il caldo e non solo i ghiacciai, e la mia valigia è piena di cose inutili. Ma ogni scelta è stata guidata da un modello mentale, ben allenato negli anni, che mi ha permesso di conoscere in anticipo le regole del mondo che andavo a esplorare, e di muovermi con relativa sicurezza, anche di fronte agli imprevisti.
Mi fermo per un attimo a immaginare lo stesso viaggio affrontato, però, senza nessuna preparazione. Immagino di essermi svegliata senza sapere nemmeno che esista l’Islanda e di trovarmi qui, in cima alla collina, per effetto di una magia, dopo essermi addormentata tranquillamente a casa mia ieri sera. Quanto tempo ci metterò a capire dove sono e a valutare opportunità e pericoli? Su che cosa baserò le scelte che dovrò fare? E se, improvvisando, mi ritrovassi in qualche difficoltà?
Singolarità e transumanesimo
Trovarsi nel 2050 senza l’adeguata preparazione farebbe molto probabilmente proprio quest’effetto, moltiplicato per mille, dal momento che si tratterebbe di una realtà per noi quasi incomprensibile. Ma perché in poco più di trent’anni dovremmo aspettarci cambiamenti così radicali? Possiamo cercare una risposta partendo innanzitutto dal concetto di singolarità tecnologica.
Era il 1993 quando per la prima volta qualcuno proponeva in modo scientifico l’idea che prima o poi ci saremmo trovati in una realtà al di sopra dell’umana comprensione. Proprio in quell’anno, Vernor Vinge, pluripremiato scrittore di fantascienza con un passato da professore di matematica alla San Diego State University, pubblicava un articolo scientifico dal titolo The Coming Technological Singularity: How to Survive in the Post-Human Era. Il concetto più dibattuto nel nostro tempo cominciò allora a prendere forma e venne battezzato appunto con l’espressione «singolarità tecnologica».
Singolarità in fisica indica un evento dirompente in grado di cambiare tutto, in un solo istante. Secondo questa definizione, per esempio, il Big Bang è un momento di singolarità. Aggiungendo il concetto di tecnologia con particolare riguardo all’intelligenza artificiale e astraendo dalla fisica ci troviamo dunque a parlare di un cambiamento radicale che riguarda intimamente la nostra umanità: una singolarità nelle capacità cognitive degli esseri umani.
Il ragionamento di Vinge è molto logico: entro il 2030 saremo capaci di creare intelligenze superiori a noi. A seguire, queste intelligenze saranno a loro volta in grado di fare lo stesso, innestando così un processo inarrestabile che renderà la realtà incomprensibile per gli esseri umani di oggi, tanto quanto la nostra civiltà è incomprensibile per un pesce rosso.
Il concetto è stato ripreso e divulgato dal futurologo Ray Kurzweil che, oltre ad aver scritto molto sull’argomento dell’accelerazione tecnologica e del conseguente avvicinarsi del momento di singolarità, ha addirittura creato, insieme all’innovatore Peter Diamandis, un centro di formazione che prende il nome di Singularity University. Kurzweil, aggiungendo circa quindici anni alla previsione di Vinge, ha inizialmente ipotizzato che il momento della singolarità sarebbe arrivato nel 2045, per ricredersi tuttavia dopo qualche tempo indicando una data molto più vicina: il 2029.
Se dunque Vinge e Kurzweil dovessero avere ragione il 2050 sarà un luogo molto diverso da oggi e senza una guida adeguata potremmo perderci.
La discussione sulla singolarità si concentra su due direttrici: coloro che sostengono che inevitabilmente si tratterà di qualcosa di unico nella storia dell’umanità, e coloro che invece ritengono che i cambiamenti attesi non saranno tanto diversi da quelli avvenuti nel nostro passato con l’avvento, per esempio, della stampa.
Secondo i primi l’unico modo per non essere sommersi dallo tsunami del cambiamento sarebbe quello di prendere in mano la nostra stessa evoluzione e dirigerla intenzionalmente verso il potenziamento tecnologico, genetico e chimico in modo da permetterci di rimanere superiori alle macchine intelligenti che avremo creato. Che cosa significa? Potenziare l’essere umano per i sostenitori di questa tesi significa ricorrere alla manipolazione del DNA, alla chimica e alle neurotecnologie per aumentare le nostre capacità cognitive grazie alla fusione di noi stessi con la tecnologia. Dopotutto un po’ di trucco, un paio di occhiali, una penna, una calcolatrice o un computer non adempiono allo stesso scopo?
Questo tipo di filosofia prende il nome di transumanesimo e ad ascoltare la maggior parte dei suoi seguaci pare che nel futuro dell’umanità non ci sarà spazio per chi dovesse restare indietro. Per rispondere alla perplessità di chi evidenzia il potere divisorio di simile visione, è intervenuto James Hughes che, nel suo libro Citizen Cyborg, spiega come le società democratiche del futuro potranno creare un mondo senza diseguaglianze anche dopo l’avvento di nuove diramazioni della specie umana come quelle potenzialmente derivanti da tale approccio che prevede di indirizzare in modo intenzionale la nostra evoluzione. Nel 2050 l’argomento sarà certamente molto attuale, come vedremo nelle pagine di questo libro.
Singolarità e transumanesimo sono dunque profondamente collegati e dal punto di vista teorico si rafforzano a vicenda: la prima fornisce la base per mostrare la necessità della seconda.
Passaggi d’epoca
Come anticipato, non tutti sono d’accordo con questa visione. È vero infatti che assisteremo a enormi cambiamenti dovuti allo sviluppo di tecnologie e innovazioni come l’intelligenza artificiale, la robotica, la stampa 3D, la blockchain, il quantum computing, le nanotecnologie, le biotecnologie, gli avanzamenti della genetica e l’esplorazione dello Spazio. È certo che questi cambiamenti richiederanno all’umanità di rivedere le istituzioni e i pilastri della società. È altrettanto osservabile però che il passato dell’umanità è costellato da grandi passaggi epocali nei quali la nostra società si è rimessa in discussione e ha subito cambiamenti radicali.
Per i primi dunque il cambiamento che abbiamo di fronte è paragonabile solo a momenti come l’avvento della nostra specie sul pianeta, per altri siamo di fronte a qualcosa di simile all’invenzione della stampa e siamo nel bel mezzo di un passaggio da un’epoca a un’altra. Potremmo dire che stiamo compiendo un viaggio transepocale. In questo caso comprendere almeno alcune delle regole del gioco potrebbe essere più semplice.
I passaggi d’epoca sono momenti nella storia dell’umanità in cui ci troviamo tra due periodi distinguibili (solitamente a posteriori) in modo molto netto, per effetto delle loro caratteristiche culturali e sociali uniche. Questi momenti di passaggio sono caratterizzati da cambiamenti che, anziché essere lineari e continui – e quindi prevedibili –, sono discontinui e difficili da prevedere.
A questo punto la tipica obiezione offerta da chi sostiene la singolarità e il transumanesimo è che la differenza oggi la fa la velocità, la cosiddetta accelerazione tecnologica. Sul fatto che il ritmo di vita e i cambiamenti dovuti agli impatti delle tecnologie siano oggi molto più veloci di qualche secolo fa, complici la rivoluzione digitale e la diffusione di internet, non è possibile muovere obiezioni. Si tratta però di un processo incrementale che abbiamo potuto osservare anche in passato, con l’avvento di tecnologie particolarmente rivoluzionarie come la stampa. Leggendo alcune opere del tempo ci troviamo a percepire le stesse sensazioni. Ecco, per esempio, quanto scrive Tommaso Campanella a cavallo tra il XVI e il XVII secolo: «V’è più historia in cent’anni che non ebbe il mondo in quattromila; e più libri si fecero in questi cento che in cinquemila; e l’invenzioni stupende della calamita e stampe ed archibugi, gran segni dell’union del mondo». Nello stesso periodo si esprimeva invece così Pierre Borel: «Saremmo certo rimasti increduli se ci avessero assicurato che, mediante la stampa, sarebbe stato possibile “scrivere un’infinità di libri in poco tempo e con una velocità mille volte più grande di quella con la quale si parla e trasmetter le nostre concezioni ai posteri acquistando in tal modo una sorta di immortalità”». Affermazioni come queste non ricordano moltissimo certe frasi rese virali dai social network? «Ogni giorno creiamo 2,5 quintilioni di byte di dati. Per contestualizzare: il 90 per cento dei dati nel mondo oggi è stato creato solo negli ultimi due anni. E con nuovi dispositivi, sensori e le tecnologie emergenti, il tasso di crescita dei dati probabilmente accelera ancora di più».
Report e analisi come quella di IBM da cui è tratta questa informazione vanno oggi molto di moda ed evidenziano esattamente quello che sottolineavano già Campanella e Borel: la tecnologia e le invenzioni degli esseri umani accelerano processi e creano rivoluzioni che aumentano la velocità delle nostre interazioni e attività.
Oggi siamo di fronte a rivoluzioni che riguardano i dati e la nostra capacità di analizzarli e utilizzarli come strumenti decisionali, a reti sociali sempre più grandi e connesse grazie a internet e ad avanzamenti scientifici che ci permettono di iniziare a comprendere la vita e il nostro corpo biologico come mai prima. La convergenza di queste rivoluzioni determinerà il nostro futuro. Ma quale sarà la portata di tale cambiamento?
Torniamo dunque a chi ritiene che siamo nel mezzo di quello che abbiamo chiamato un viaggio transepocale. Se fossimo davanti a un momento di passaggio come quelli già registrati nella storia, potremmo trovare indicazioni utili per affrontarlo nello studio del passato, del presente e del futuro e, di conseguenza, del cambiamento. In momenti come l’attuale, invece, secondo il futurista americano Peter C. Bishop, facciamo più fatica a comprendere i cambiamenti e a prevedere il futuro, poiché i cambiamenti sono discontinui. In questo tipo di contesto non valgono gli strumenti di analisi e di previsione strategica che usiamo per pensare a cambiamenti lineari; utilizzando gli strumenti giusti potremmo tuttavia affrontare anche queste trasformazioni.
La necessità di partire attrezzati
Ma dobbiamo davvero sposare una o l’altra teoria per comprendere e guidare il futuro? Non possiamo utilmente trovare un terreno comune, a prescindere dalla nostra visione?
A mio parere, sia che ci troviamo in prossimità di una singolarità, sia che si tratti di un viaggio transepocale, affrontare il futuro che ci attende senza provare a prepararci con gli strumenti adatti sarebbe irresponsabile. Se dunque, come me, preferite conoscere almeno qualcosa di quello che vi aspetta prima di intraprendere il viaggio verso il futuro, avete in mano il libro giusto per voi.
Troppo spesso ci lasciamo trasportare dal tempo, senza cercare di capire come sarà la realtà che stiamo andando a visitare. Siamo ciechi di fronte alle meraviglie e ai potenziali pericoli che si profilano all’orizzonte per un semplice motivo: non sappiamo dove guardare. Poi, d’improvviso, ci scopriamo proiettati in un nuovo presente, ci accorgiamo di quante cose sono cambiate e ci ritroviamo ad affannarci, inutilmente, per rincorrere i ritmi di una società per la quale non siamo preparati.
Il futuro è la meta più selvaggia che potremo mai visitare. È una meta complessa, che richiede studio ed esercizio d’immaginazione prima di partire. Gli strumenti sono pochi e incerti: sono più le cose che non conosciamo – che sappiamo di non conoscere e che non sappiamo di non conoscere – che quelle che davvero conosciamo. E anche quando partiamo da quella piccola parte di certezze che possediamo, sbagliamo, inevitabilmente, perché è impossibile prevedere il futuro durante un passaggio epocale di questa portata.
E allora, come si fa?
La prima cosa è studiare, per capire quali sono i possibili futuri che si profilano davanti a noi. Dopodiché dobbiamo provare a esplorarli, immaginarli, metterli in discussione. Solo così avremo una possibilità di capire quali vogliamo davvero visitare di persona e come prepararci per il viaggio. Certo è faticoso. Servono creatività, intraprendenza, flessibilità e capacità di lavorare in gruppo per arricchire le nostre visioni con quelle degli altri (che dopotutto saranno i nostri compagni di viaggio). Servono coraggio, resilienza e spirito critico. In questo modo, con immaginazione, creatività e spirito critico, potremo costruire scenari speculativi e simulazioni plausibili.
Proprio con questi strumenti è stato costruito il libro che avete tra le mani e queste sono anche le cose che dovremo mettere in valigia per affrontare il viaggio verso il 2050.
*Brano tratto dal libro “Benvenuti nel 2050. Cambiamenti, criticità e curiosità” di Cristina Pozzi, Egea, 2019, pp. 182, euro 19