Probabilmente si rivedranno oggi, per la prima volta dopo un voto che ha stravolto i rapporti di forza nella maggioranza giallo-verde. Da una parte il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Dall’altra il suo vice e ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Ma nell’ottica di una Lega trionfante, i ruoli formali sono già superati da quelli di fatto: con un Conte ostaggio del Carroccio, e Salvini non più premier ombra ma in attesa e già operativo. L’incognita è se l’«avvocato del popolo» accetterà la sindrome dell’ostaggio pronto a tutto per assecondare chi lo tiene prigioniero; e quanto il leader leghista forzerà per umiliare il Movimento Cinque Stelle, mettendo nel conto il voto anticipato.
I grillini appaiono frastornati e incapaci di prevedere le prossime mosse dell’alleato-coltello e perfino le proprie. E temono che le forche caudine allineate da Salvini nell’agenda del governo, «dettata dagli italiani», finiscano per portare alle urne. Conte, da Bruxelles, sostiene di non sentirsi «commissariato» e non dice per chi ha votato. «Mi sono tenuto lontano» dalla campagna elettorale, rivendica. Ma gli unici momenti in cui finora ha rivelato una scorza dura, sono stati quando gli è stato chiesto se era pronto a cedere Palazzo Chigi. In quei casi, la replica è sempre stata tagliente, irremovibile. Confidava, col vertice del M5S, sul «fiato corto» del capo leghista; e su un equilibrio di forze che poteva al massimo modificarsi un po’ a favore del Carroccio.
Le Europee del 26 maggio, invece, hanno materializzato il fantasma di un Salvini più incombente che mai. E di colpo, la poltrona che sembrava al sicuro è tornata scalabile. Anzi, teoricamente già «scalata» da un leader leghista che, umiliando Di Maio, ha messo nell’angolo lo stesso Conte. I Cinque Stelle, è vero, si aspettavano un risultato mediocre. «Le Europee non fanno per noi», mettevano da tempo le mani avanti. «Fino al 20 per cento reggiamo. Sotto va male. Il 15 per cento sarebbe il disastro». Il 17,1 preso domenica scorsa, è più vicino al «disastro». E tutti gli incubi allineati come pure ipotesi di scuola si stanno avverando.
La sensazione è che siano destinati a scaricarsi sul premier, non più su Di Maio, di fatto già sotto processo nel Movimento. Conte si è esposto per rallentare l’Alta velocità sgradita ai grillini. E lo ha fatto di nuovo quando si è trattato di dare il benservito al sottosegretario indagato, Armando Siri. È stato percepito come l’«avvocato del popolo» chiamato a perorare il contratto contro un Salvini debordante, confidando di indebolirlo. Ma ora, dall’alto del suo 34 per cento, il capo leghista lascia trasparire un potere di minaccia smisurato. Ha già fatto sapere che Siri parteciperà alla stesura dell’agenda economica necessaria di «un’accelerazione» sulla flat tax, la costosa riforma fiscale cara alla Lega.
Insomma, pur formalmente lasciandolo fuori dal governo, Salvini ce lo rimette, in modo provocatorio. E se un altro sottosegretario, quello ai Trasporti Edoardo Rixi, sarà condannato per peculato, rimarrà al suo posto: così ha deciso la Lega, sollecitando il nervo sensibilissimo dei rapporti tra politica e giustizia. Richiesta che pare irricevibile, per il M5S. Ancora: l’Alta velocità Torino-Lione andrà fatta, e rapidamente. Di Maio ha già detto che questi dossier sono nelle mani del premier, non nelle sue. Significa che il capo del governo dovrebbe rassegnarsi a essere non più l’arbitro chiamato a moderare la Lega, ma a assecondarne lo strapotere.
Operazione eroica, da vittima destinata al sacrificio finale, eppure obbligata a andare avanti. Con una doppia speranza che racchiude anche una doppia insidia: la speranza che concedere pezzi di «contratto» a Salvini basti a evitare le elezioni; e l’insidia che questi cedimenti non scongiurino né il voto né l’esplosione di un Movimento spaventato e confuso. L’odore di urne in autunno in apparenza è meno acuto, ma ristagna. E Conte non si illude che non cambi nulla. Salvini è in grado di scegliere il momento per dare il colpo finale.
A novembre, quando uno dei conflitti nella maggioranza già infuriava, lo scenario post-Europee era diverso. Il M5S vedeva un Conte pronto a concedere a una Lega in crescita un rimpasto, concedendole ministero dell’Economia e Esteri, e avanti col governo. L’obiettivo era doppio: liberarsi di «tecnici» ritenuti infidi e tacitare le brame leghiste. Ma oggi lo schema si rivela superato. Una Lega forte del 34 per cento appare inarrestabile, col M5S dimezzato. Rimane da capire se Conte, accusato di essere sbilanciato a favore di Di Maio, accetterà il ruolo di ostaggio.
I suoi dicono che non lo accetterà, e che il problema, adesso, è il primum vivere dei Cinque Stelle: quello che dovrebbe imporre il «no» alla permanenza di Rixi al governo in caso di condanna, e il «ni» all’autonomia regionale in salsa leghista. Ma non è chiaro se l’argine sarà in grado di reggere, perché il Movimento teme come la peste il voto anticipato. Il 20 aprile Conte spiegava che «Salvini ha una vita davanti a sé per fare il premier, se e quando si creeranno le condizioni. Non in questa legislatura». Allora non poteva prevedere che una nuova legislatura potrebbe arrivare prima del previsto. Anzi, forse è già cominciata.