I numeri del ribaltone sono noti: Salvini vicino o oltre il 30 per cento e Di Maio più prossimo al 20 che al 30. Così avremmo veramente nuovi rapporti di forza, una Lega padrona del suo destino e di quello dell’Italia, libera di rivendicare altre poltrone e forse Palazzo Chigi o di andare a elezioni politiche.
La sfida della campagna elettorale si è consumata intorno a questo scenario, che è diventato lo spauracchio dei 5 stelle. Da lì la rincorsa scriteriata, gli scontri quotidiani, il tentativo grillino di aggrapparsi ai piedi dell’alleato per trascinarlo giù, con tutti i mezzi, almeno a una distanza di sicurezza. Adesso Matteo Salvini dice: «Un voto in più del 18 per cento è una vittoria ». Si riferisce al dato del 4 marzo. Mette le mani avanti insomma. Ma ci sono stati giorni, in cui i sondaggi si potevano pubblicare, che il simbolo del Carroccio era affiancato a percentuali da capogiro: 36 per cento, 32 quando andava male. Quindi, il ministro dell’Interno ha cominciato a fare la bocca a un esito con il 3 davanti, da Capitano del Paese, da unico leader in campo come avvenne 5 anni fa per Matteo Renzi. Le aspettative sono molto grandi, le amministrative e le regionali hanno fatto da apripista a un risultato che molti credono sorprendente. Alla fine però andrà letto nella competizione con il ministro dello Sviluppo economico.
Fa sorridere come si possono valutare le cifre con occhi diversi. Il Movimento, che alle politiche fece il botto (32 per cento), prende come punto di riferimento le Europee del 2014, quando venne travolto dal ciclone Renzi e si arrestò al 21 per cento. Loro partono da questo numeretto. Chiaramente, se lo confermassero o lo migliorassero anche di poco, sarebbe un disastro, una sconfitta epocale dopo il trionfo di appena un anno fa, dopo il reddito di cittadinanza, dopo i mille strappi rispetto alla virtù delle origini compiuti sull’altare del consenso e dell’alleanza di governo. In realtà, il primo obiettivo dei 5 stelle è ridurre la forbice con la Lega dando per scontato gli altri arriveranno sopra. Andrebbe benone 28 a 25, anche 30 a 25. Fermo restando che altri numeri assolutamente reali recitano così: il Movimento ha 326 parlamentari in Italia (ovvero nel posto che a loro interessa, altro che Strasburgo), la Lega 181. Una bella differenza.
La Lega dunque vince se supera il 30 o se sta sotto di poco (28) ma distanziando i grillini. Il M5s ha una soglia psicologica del 20 per cento, ma la sua soddisfazione dipende da quanto si avvicina all’alleato. L’altro intreccio è tra il Movimento e il Partito democratico. Se c’è il sorpasso è la vittoria vera del Pd e il panico di Di Maio. Il secondo posto in questo caso diventa cruciale. I dem sperano di ripetere le esperienze di Abruzzo e Sardegna dove la vittoria è andata al centrodestra, ma alle spalle è arrivata la coalizione del centrosinistra battendo il candidato di Grillo. Ma il Pd fa anche una corsa solitaria che muove dal pessimo 18 per cento di un anno fa. Nicola Zingaretti ha fissato l’asticella almeno al 20 per cento: il 2 davanti. Il vero obiettivo è una percentuale oscillante tra il 23 e il 25. Altrimenti non si spiega lo sforzo della lista unitaria. Al segretario sarebbe piaciuto lanciare un appello al voto utile, “contro” Più Europa e Verdi — Italia in comune, che difficilmente raggiungeranno il quorum del 4 per cento. Ma lo ha evitato perché potrebbero essere gli alleati di domani nel voto anticipato, lo slogan della sua campagna.
Forza Italia lotta invece contro l’irrilevanza. Con il 10 per cento (la doppia cifra) ha ancora carte da giocare nel duello con Salvini. Sotto invece può cominciare una fuga verso i lidi leghisti o quelli di Fratelli d’Italia, tanto più se la Meloni dovesse tallonare Berlusconi.