Ha resistito per mesi, circondata più da nemici che da amici, dimostrando una grande determinazione, ma alla fine ha gettato la spugna. Theresa May ha annunciato ieri le sue dimissioni da leader dei conservatori, dimissioni che formalizzerà il 7 giugno aprendo la corsa alla successione alla guida del partito e di conseguenza del governo. «Lascerò il lavoro che è stato l’onore della mia vita», ha detto con la voce rotta dal pianto nel terminare il breve discorso pronunciato davanti al numero 10 di Downing Street. «Per me rimarrà sempre motivo di profondo rammarico non aver potuto portare a termine la Brexit», ha riconosciuto.
«Ha mostrato integrità e rimarrà una servitrice dello Stato, una patriota e una conservatrice fedele», ha dichiarato Dominic Raab, che lo scorso anno lasciò il ruolo di responsabile della Brexit in polemica con lei. «Grazie per il tuo stoico lavoro al servizio del nostro Paese e del partito conservatore», ha twittato Boris Johnson, che da tempo lavora per diventare il nuovo premier. Come sempre a nemico che fugge ponti d’oro. Il leader laburista Jeremy Corbyn va all’attacco e chiede il voto: «Theresa May ha fatto bene a dimettersi. Ora ha accettato quello che il Paese sapeva da mesi: lei non può governare né può farlo il suo partito diviso e disintegrato. Chiunque diventerà il nuovo leader dei Tory deve lasciare che le persone decidano il futuro del nostro Paese, tramite elezioni immediate».
Proprio come per David Cameron il divorzio dall’Europa è stato la sua maledizione. «Brexit vuol dire Brexit», era solita ripetere. E invece sotto la sua guida il Paese la Brexit non ha fatto altro che rimandarla. Dopo aver attivato l’articolo 50 nel marzo del 2017 ha trattato con Bruxelles i termini del divorzio per quasi due anni. Quando finalmente ha raggiunto un accordo, i Comuni lo hanno respinto con 432 voti contrari e 202 favorevoli, la peggiore sconfitta per il governo in un secolo. Lo stesso testo è stato poi bocciato altre due volte. I primi a farle mancare il proprio sostegno erano sempre i suoi compagni di partito.
Quando nel luglio 2016 sostituì alla guida del governo britannico Cameron, diventando la seconda donna premier nella storia del Paese, escluse la possibilità di tornare alle urne. Ma poi, spinta forse dai consiglieri sbagliati, convocò elezioni anticipate. Fu il grande errore della sua carriera. I Conservatori sottovalutarono Corbyn, che fece aumentare notevolmente i consensi del Labour, persero la maggioranza e furono costretti a ricorrere al sostegno degli unionisti nord irlandesi per formare il governo. E il Dup è stato una spina nel fianco delle trattative, con la sua ostinata opposizione a ogni compromesso sul confine in Irlanda del nord.
«La mia sarà una leadership forte e stabile». Un’altra frase che May ripeteva sempre, un’altra promessa che non è riuscita a mantenere. Quando la corsa alla sua successione sarà completata, probabilmente verso al fine di luglio, ci sarà un nuovo governo conservatore. Corbyn ha chiesto «immediate elezioni politiche», perché se May non può più governare il Paese «non può farlo neppure il suo partito, che è diviso e si sta disintegrando». E in Europa la paura del No Deal torna a farsi forte. «Entriamo in una fase molto pericolosa», ha avvertito il premier irlandese Leo Varadkar. «Faremo di tutto per arrivare a un’uscita ordinata», ha promesso la cancelliera Angela Merkel. Ma tutto dipenderà da chi prenderà le redini del Paese.