Il 18 aprile Giovanni Tria non aveva messo in programma di allontanarsi da Roma. L’agenda del ministro dell’Economia quel giorno era particolarmente piena. Al mattino presto doveva parlare alla commissione bicamerale del Parlamento sul federalismo fiscale. Poi era atteso al ministero per l’incontro con la Asian Infrastructure Development Bank. Dev’essere stato per questo che l’economista, approdato in politica undici mesi fa, ha scelto di fare qualcosa che gli capita di rado: saltare un Consiglio dei ministri.
La riunione del governo del resto quel giorno non era stata convocata a Palazzo Chigi ma, in via eccezionale, a Reggio Calabria. All’ordine del giorno ufficiale figuravano temi specifici che non riguardano Tria: il commissariamento della Sanità in Calabria, le regole degli esami delle superiori in Val d’Aosta, l’anno dedicato al poeta Ovidio morto duemila anni fa e la «rimodulazione» dell’organico della Farnesina.
Il ministro dev’essere rimasto sorpreso quando ha letto i risultati di quella riunione di governo. I due viceministri dell’Economia Laura Castelli (M5S) e Massimo Garavaglia (Lega) erano stati nominati alla guida della spending review. Senza dirlo al titolare del dicastero, i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini avevano messo i loro colleghi di partito nella posizione più utile per impostare la prossima, difficilissima legge di bilancio. Tria aveva temporeggiato quasi dieci mesi per concedere qualunque tipo di delega a Castelli e Garavaglia. Ora, in sua assenza e a sua insaputa, il Consiglio dei ministri metteva i due nelle condizioni di contendere a lui molti dei suoi poteri. Il ministro deve aver reagito, a giudicare dal seguito. Il 28 aprile un altro Consiglio dei ministri, di nuovo a sorpresa, revoca gli incarichi a Castelli e Garavaglia. Non è chiaro ora chi guiderà i tagli della spesa pubblica e degli sgravi fiscali che, in teoria, dovrebbero permettere ai conti pubblici di tenere la rotta nel 2020 e di evitare aumenti colossali di tasse sui consumi (Iva e accise).
Non è neanche chiaro quale sarà il perimetro dei poteri dell’organismo più delicato dell’amministrazione, probabilmente, quello che per primo controlla la spesa: alla Ragioneria generale dello Stato stanno infatti arrivando varie novità. La prima è la nomina in Consiglio dei ministri di Biagio Mazzotta alla guida al posto di Daniele Franco, entrato nel direttorio della Banca d’Italia. Mazzotta è stato il più stretto collaboratore di Franco e tutti quelli che lo conoscono ne sottolineano la professionalità e l’indipendenza dalla politica.
La seconda novità però è più difficile da leggere. L’idea di Tria di creare un nuovo dipartimento per gli investimenti al ministero rischia infatti di togliere proprio alla Ragioneria mansioni dirette di controllo di spesa. Né è chiaro quali ne sarebbero i compiti ora che si sta creando la struttura di missione InvestItalia a Palazzo Chigi, mentre molti poteri di vaglio e autorizzazione degli investimenti spettano al Cipe e al ministero delle Infrastrutture. La sola certezza è che il tempo stringe: le ultime stime della Commissione Ue hanno certificato che i saldi dei conti dell’Italia per l’anno scorso violano gli accordi e l’avvio di una procedura sul deficit, dunque il debito è legalmente possibile in qualunque momento. Non arriverà, non subito almeno. Ma a Bruxelles ormai si è capito che sarà sempre l’attuale Commissione Ue a dover valutare la legge di Bilancio dell’Italia, non la prossima. Di conseguenza, appare sempre più chiaro l’orientamento di Bruxelles a mettere pressione sul governo perché chiarisca fin dall’estate come intende correggere la rotta pericolosa del deficit e del debito. Lo si vedrà già subito dopo il voto per le Europee del 26 maggio.