Domenica prossima si vota. Ma per che cosa? A giudicare dalla campagna elettorale, su tutto meno che sui temi europei. Sui rapporti tra politica e magistratura, sul riemergere dei fantasmi totalitari del Novecento (che solo un’Unione europea più forte può esorcizzare), sulle mille diatribe del cortile di casa nostra. Anche quando si parla di immigrazione sfugge la distinzione fra competenze comunitarie e responsabilità nazionali. Non è solo una questione di porti falsamente chiusi. Le tasse poi non le mette Bruxelles. Le clausole di salvaguardia sull’Iva ce le siamo inventate noi (e non questo governo). Il duello rusticano fra Cinque Stelle e Lega ha uno scopo interno: misurare, dopo il voto, i reciproci rapporti di forza. Peccato che questa resa dei conti avvenga su una ideale «zattera della Medusa» alla deriva continentale. A nessuno di loro viene in mente che l’Italia rischia di non contare più nulla. Pressoché assente nella coalizione dei partiti che probabilmente formeranno la nuova maggioranza a Strasburgo. Isolata nelle istituzioni comunitarie anche da quei Paesi — in parte rappresentati ieri nella piazza di Milano — ai quali soprattutto la Lega si sente affine. È il paradosso del sovranismo nostrano: fa di tutto per rafforzare la sovranità degli altri, non la propria. Del resto non poteva che essere così. Quello che sta accadendo è il risultato di una rappresentazione elettorale dell’Europa sorda, austera, a guida tedesca e a cuore «bancario» dalla quale ci si deve difendere allontanandosi, chiudendosi.
E rinunciando così a migliorarla (e ne ha bisogno) pur sapendo che continuerà a regolare le nostre vite. Oggi l’Italia ricopre tre ruoli importanti. Con Mario Draghi alla presidenza della Bce, Antonio Tajani alla guida dell’Europarlamento e Federica Mogherini come Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. A fine anno, è assai probabile che avremo solo un commissario. E dunque non è il caso di mandare a Bruxelles un rappresentante — come è accaduto anche in passato — per risolvere unicamente qualche problema di equilibri interni alla maggioranza. Non si difendono i nostri interessi candidando persone inesperte, inadeguate. Ma c’è di peggio: non ci saremo nei luoghi in cui si decideranno i nuovi vertici delle istituzioni comunitarie. Da Paese fondatore l’Italia rischia di essere percepita come un membro marginale, escluso da ogni alleanza, e persino elemento di contagio per la sua disordinata finanza pubblica. È questo che vogliamo? Non è il caso che nell’ultima settimana di campagna elettorale se ne discuta apertamente? Riccardo Perissich nel suo Stare in Europa (Bollati Boringhieri) scrive che la «battaglia per preservare l’Unione, e con essa la democrazia liberale, merita di essere combattuta ed è forse la più grande sfida di questo secolo». Coraggio allora, alzate lo sguardo. Immaginate il futuro dell’Italia in un’Europa unita che non piace né a Trump, né a Putin né a Xi Jinping. Ovviamente per i loro sovrani motivi, che non sono i nostri. Il contraddittorio sovranismo britannico, a tre anni dal referendum sulla Brexit, non insegna nulla? È un assoluto inganno dire che dopo il voto — in presenza di una robusta avanzata dei partiti nazionalisti e sovranisti — l’Unione verrà rivoluzionata nelle sue regole. Capovolta, come spera qualcuno. Sappiamo come la pensano i vari Orbán e Kurz sulla sostenibilità del debito pubblico italiano. Al loro confronto Juncker e Moscovici sono due tiepide colombe. Le istituzioni europee verranno rinnovate a fine anno. Non decadono nei loro poteri da domenica prossima. E la Commissione si appresta, all’inizio di giugno, a chiedere conto all’Italia se esistano «fattori rilevanti» che giustifichino la non osservanza della regola del debito. Le raccomandazioni ai vari Paesi arriveranno puntuali. Il 13 e 14 giugno si riuniranno i ministri delle Finanze europei. Business as usual . Qualunque sia il voto.
Proviamo per un attimo a immaginare che l’Italia sia sola. Non appartenga né all’Unione europea né alla moneta unica. E, dunque, non abbia quel fastidioso limite del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil. Salvo essersi persa, nel frattempo, i vantaggi dell’appartenenza al mercato unico, vitale per un Paese esportatore. Ma riuscirebbe a convincere i mercati a finanziare il suo debito? La Turchia ha la sovranità monetaria ma paga tassi anche superiori al 20 per cento. Moderazione e senso di responsabilità dovrebbero consigliare (anche prima, non solo oggi) di occuparci delle nostre fragilità finanziare. Seriamente. Cioè di essere sovranisti con il nostro debito. Il modo migliore per smontare l’accusa di essere «cicale» irresponsabili. Smettere così di raccontarci la favola che si possa curare il debito facendo più deficit. Nella speranza di avere una maggiore crescita che riduca il rapporto tra il debito e il prodotto interno lordo. Non ci è mai riuscito nessuno.
Gianmarco Ottaviano ( Geografia economica dell’Europa sovranista , Laterza) spiega che vi sono quattro idee sbagliate sull’Europa. La prima è che le decisioni importanti non coinvolgano gli Stati membri. La seconda è che non abbiano fondamento democratico (e allora domenica che ci andiamo a fare alle urne?). La terza, che non esistano decisioni propriamente europee. E la quarta che l’Unione europea sia un lusso, con costi superiori ai benefici. La realtà — afferma in sintesi l’economista — è che i beni pubblici che l’Unione europea può offrire ai cittadini nessuno Stato da solo potrebbe garantirli. Pace, libertà, sicurezza, benessere, ambiente, regole (un solo esempio: la protezione delle nostre vite digitali). Forse beni distribuiti in modo diseguale? Certo, è uno dei tanti difetti della costruzione comunitaria. E l’Italia può fare molto per correggerli. A patto che ci sia. Fiera e preparata. L’isolamento non serve a nulla. Fa crescere solo i rancori e i rimpianti. Con i quali non si campa.
P.s. Nel 2014 votò il 57,22 degli aventi diritto. Speriamo tutti che domenica siano di più. Nel ‘79 andò alle urne l’85,65 per cento. Altri tempi.