Ministro, lei dice che le stime Ue sono in linea con quelle italiane, ma le ha definite «previsioni più politiche che economiche». In che senso?
Intendevo semplicemente dire che che le stime della commissione sono “a politiche invariate” e quindi previsioni sulle politiche perché non considerano impegni che però sono già inseriti nella legislazione italiana e nel Def, e che confermo.
Impegni che però sembrano essere rimessi in discussione dalla Lega e anche dai Cinque Stelle.
Io mi attengo a quello che sia il Governo sia il Parlamento hanno approvato con il Def. Poi certo c’è l’intenzione di ridiscutere non l’Europa ma le regole che hanno guidato fin qui la sua politica economica. Ma quando faremo la prossima legge di bilancio non sarà nemmeno ancora insediata la nuova commissione, quindi gli impegni attuali sono quelli che ho detto. Anche perché è bene evitare di determinare sconcerto nei mercati.
Ma il mancato rispetto degli obiettivi di debito sul 2018 non fanno riemergere il rischio di una manovra correttiva in corso d’anno?
I Country Report di giugno conterranno le raccomandazioni della commissione a tutti i governi e riguarderanno il 2020, per cui non penso che verrà sollevato il problema di aggiustamenti che finora non ci sono stati richiesti. È noto poi che la commissione esaminerà i risultati 2018, che sul debito non hanno rispettato pienamente gli obiettivi anche a causa di una crisi economica che rappresenta senza dubbio un fattore rilevante. Mi aspetto quindi che la discussione vera sui nuovi programmi di finanza pubblica ci sarà a ottobre.
Oltre agli aumenti Iva, però, la commissione sembra non considerare nemmeno il piano di privatizzazioni da 18 miliardi che il governo ha già incluso nei calcoli sul debito. C’è un problema di credibilità di queste misure?
È una prassi della commissione, basata sul fatto che anche in passato si sono previste privatizzazioni, in genere tre decimali di Pil, e poi non si sono realizzate. Nasce da qui la previsione “a politiche invariate” di cui parlavo prima. Ma il nostro obiettivo rimane, al momento non posso anticiparne le modalità di attuazione ma è chiaro che se non sarà raggiunto in pieno bisognerà pensare a qualche misura alternativa per ottenere lo stesso scopo.
Sull’Iva sia Salvini sia Di Maio confermano ogni giorno la volontà di bloccare qualsiasi aumento.
È chiaro che impedire l’aumento dell’Iva significa dover agire sul lato della spesa, e si può discutere se a parità di deficit previsto sia più recessivo un taglio di spesa o un aumento di tasse. Io credo in generale che gli interventi sulla spesa siano più virtuosi di quelli sulle tasse, ma il problema è decidere dove si taglia. È un problema di scelte politiche che devono essere compiute.
Spesso per evitare di affrontare queste scelte si parla di lotta agli sprechi. Il Def però pone per la spending un obiettivo da due miliardi, minimo rispetto ai valori in gioco con la prossima manovra. Non si può fare di più?
Gli «sprechi» in sé non esistono, nel senso che ciò che è «spreco» per qualcuno è un beneficio per qualcun altro. Non esistono sprechi che non abbiano dietro interessi, così come accade con le tax expenditures.
Infatti anche su questo tema il dibattito è ricco ma i risultati finora nulli. Avete già avviato un’analisi, almeno sul piano tecnico, per individuare quali voci si possono aggredire davvero?
Le analisi tecniche sono continue: le abbiamo sviluppate già l’anno scorso e le stiamo aggiornando. Ma appunto perché dietro a ogni spesa fiscale, cioè a ogni detrazione o deduzione, ci sono degli interessi, anche in questo caso si tratta di assumere scelte politiche precise.
Resta però sempre la “terza via” del deficit, evocata spesso dalla politica. Vede margini ulteriori da questo punto di vista?
Sul deficit non ci sono margini. Bisogna intendersi: deficit significa indebitamento, non è un male in sé ma dipende dagli obiettivi per cui si ricorre a questo strumento. Una famiglia si indebita per comprare casa, non per pagare l’affitto. Tradotto in termini di finanza pubblica, significa che spese strutturali non possono essere finanziate a debito, mentre gli investimenti pubblici sì.
E le riforme fiscali?
Una riforma fiscale non si può realizzare a deficit. Si può aumentare il disavanzo per un provvedimento fiscale temporaneo, nato da precise ragioni congiunturali, ma non per una riforma strutturale.
Per gli investimenti, però, lei ha spesso sottolineato che in Italia il problema non è negli stanziamenti ma nella capacità di tradurli in opere. Su questo piano, da Confindustria all’Ance si solleva più di un dubbio sull’efficacia reale del decreto sblocca-cantieri. Si poteva fare di più?
In astratto sicuramente sì, ma bisogna considerare le condizioni politiche. In quest’ottica, comunque, molte delle proposte del Mef sono state accolte ed è un fatto positivo. È difficile smontare il Codice appalti perché ci sono molte resistenze; spesso si ritiene che più il sistema è complesso più è facile il controllo sulla corruzione. Io penso il contrario.
Le cronache di questi giorni lo confermano.
È vero ma stiamo attenti a non restituire l’immagine di un Paese nelle mani della corruzione o della criminalità organizzata. Bisogna riportare queste vicende nella loro giusta dimensione. Oggi per esempio si parla molto della Lombardia, ma non si può pensare che una delle regioni più efficienti d’Europa sia un territorio in balìa della Ndrangheta. I fatti individuali possono essere gravi e vanno accertati fino in fondo, ma il loro peso sistemico è molto scarso.
A infiammare queste polemiche è anche il calendario, che a maggio si chiude con le elezioni europee. Molti nella maggioranza si aspettano dal voto un cambiamento radicale in Europa. Lei che cosa ne pensa?
Più che dal voto mi aspetto che i cambiamenti arrivino dai fatti. Si è finalmente cominciato a discutere davvero, anche a livello extra-europeo per esempio al Fondo monetario internazionale, sul problema della crescita e della stabilità all’interno di società sempre più pervase dalla rabbia e a volte anche dalla violenza. È un tema globale, che in Europa intreccia questioni specifiche come la sostenibilità di un modello di crescita basato sull’export, e quindi esposto a shock esogeni come sta avvenendo ora per la Germania e anche per l’Italia. Lo stesso Qe ha mancato l’obiettivo di portare l’inflazione vicino al 2%, a riprova del fatto che come spesso ha rilevato lo stesso governatore della Bce Mario Draghi la politica monetaria senza una politica di bilancio coerente non basta.
Sulla politica economica, però, abbiamo incontrato più di una difficoltà nel trovare alleanze in Europa. Vede un’evoluzione del quadro?
Io penso che i grandi Paesi europei siano tutti chiamati in causa nel ridefinire queste politiche, e anche al loro interno c’è una dialettica, per esempio tra Francia e Germania. Poi c’è uno schieramento di Paesi più piccoli ma importanti nel Nord Europa che sembrano più interessati a frenare i processi di integrazione, in qualche caso anche per tutelare una competizione fiscale aggressiva ormai intollerabile, soprattutto all’interno dell’Eurozona. E in senso sostanziale il sovranismo è proprio in quei Paesi che si oppongono alle politiche di interesse comune per l’Europa Sono temi da sollevare con sempre maggior decisione anche per dare un nuovo messaggio ai cittadini europei. In quest’ottica completare l’unione bancaria è importante, ma non è certo sufficiente.
Da noi però il dibattito pre-elettorale si è infiammato su questioni decisamente più domestiche, per esempio la riforma delle Province. Il progetto che prevede una ridefinizione delle loro funzioni e il ritorno all’elezione diretta dei consiglieri ha acceso lo scontro fra la Lega e i Cinque Stelle, che vogliono l’abolizione delle Province. Lei che ne pensa?
Non ho mai condiviso la campagna per l’abolizione delle province, e le norme che ne sono scaturite con il risultato di rendere questi enti inefficienti. Le campagne basate sull’antipolitica pensano che l’eliminazione di organi di governo produca enormi risparmi, che invece a conti fatti si rivelano pochi o nulli. Il problema è rendere efficienti questi enti, e spero che presto si possa sviluppare sul tema un discorso più razionale, che si occupa prima delle funzioni e poi delle risorse. Lo stesso deve accadere sull’autonomia: bisogna definire puntualmente le competenze da spostare, rendere effettivi i costi standard e su questa base valutare le esigenze di perequazione. Ma è ovvio che qualsiasi effetto finanziario dovrà trovare una copertura.
Un’ultima domanda su un altro tema che è stato a lungo al centro del dibattito: i ristori ai risparmiatori. Le norme sono state approvate ma mancano ancora i decreti attuativi, come mai?
I problemi sono stati risolti con il decreto crescita, e a giorni arriverà il primo decreto con i tempi e le metodologie per presentare l’istanza. E ci tengo a dire che la soluzione trovata è stata molto positiva, perché garantisce il rimborso a tutti i truffati, nell’ampia maggioranza dei casi attraverso procedure praticamente automatiche.