Più del caso del sottosegretario Armando Siri, più delle diffidenze e diversità ideologiche fra Movimento 5 Stelle e Lega c’è una riga — una riga sola — come un macigno sulla strada della maggioranza. L’ha scritta il governo stesso, l’ha approvata il Consiglio dei ministri con i voti dei vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini. È a pagina 62 dei Documento di economia e finanza che il governo stesso ha varato ufficialmente il mese scorso: «Maggiori spese complessive per circa 133 miliardi afferenti prevalentemente all’area “Lavoro e pensioni”. In particolare, si segnalano gli interventi per Reddito di cittadinanza e Quota 100».
La stima naturalmente riguarda l’intero periodo dei tre anni fino al 2021 e non tutto l’aumento della spesa nominale — stimata in euro e non in rapporto al reddito nazionale o Pil — è legato delle due misure-bandiera. Inciderà sia l’inflazione che l’adeguamento ai prezzi di un volume esistente di pensioni da circa trecento miliardi l’anno. Conterà probabilmente anche il fatto che i nuovi assegni previdenziali sono in media più pesanti e più numerosi di quelli che cesseranno alla scomparsa degli attuali beneficiari. Ma il volume dell’aumento di spesa pubblica previsto fino al 2021 resta enorme: pari quasi all’otto per cento del prodotto lordo del Paese, pari a un sesto dell’intero bilancio dello Stato attuale. In altri termini il governo sta mettendo in guardia che, dopo la legge di Bilancio di dicembre scorso, la dinamica della spesa corrente rischia di accelerare come mai era successo in anni recenti.
A pagina 64 dello stesso Def, si informa in particolare che l’impatto finanziario delle misure prese solo su «Lavoro e pensioni» (non solo, ma anche reddito di cittadinanza e Quota 100 ) è di 94 miliardi in più sul triennio. A fronte di questo colpisce la dimensione molto più piccola delle misure per compensare l’impatto atteso: la principale, più entrate per 50,8 miliardi quasi tutte con l’aumento di Iva e accise, è già stata esclusa a più riprese sia da Di Maio che da Salvini. È in gran parte a causa di queste incertezze che lo stesso Def approvato in Consiglio dei ministri prevede che la spesa per interessi sul debito pubblico fino al 2021 sarà, in sostanza, di undici miliardi superiore a quanto preventivato un anno fa: i creditori dell’Italia chiedono di più per accettare il rischio di prestare a un Paese che sta aumentando tanto la spesa corrente, senza indicare le coperture chiare.
Il governo sta dunque dicendo che ha messo il Paese su una traiettoria che, di fatto, non può durare. Va riconosciuto che, anche se «prevalente», l’impatto di reddito di cittadinanza e nuove pensioni non è affatto il solo ingrediente in quell’aumento da 133 miliardi. Tuttavia, anche solo rispetto alle stime ufficiali di un anno fa l’aumento della spesa pubblica fino al 2021 è nel complesso di 53 miliardi. Cinquantatré miliardi di spesa pubblica in più in questi tre anni, rispetto alle stime di 12 mesi fa: fa oltre il tre per cento del Pil di debito in più. Questo è lo strato di costi supplementari, informa il governo stesso, aggiunto con gli eventi dell’ultimo anno.
Si può pensare che un simile aumento di spesa sia sostenibile grazie alla crescita che esso innesca, stimolando i consumi. Ma a fronte di quell’impennata di quasi l’otto per cento del Pil delle uscite, sempre il governo nel Def stima un’espansione supplementare dell’economia dello 0,6% nei tre anni grazie a reddito di cittadinanza e quota cento: una frazione minima rispetto all’aumento di spesa. Addirittura il Def varato in Consiglio dei ministri vede dal reddito di cittadinanza un impatto negativo sul principale motore di questi anni, la domanda di made in Italy dal resto del mondo: quella misura è stimata come irrilevante per l’export, mentre invece aumenta l’import. Quanto a Quota 100, dice sempre il Def, «porterà a una diminuzione dell’offerta di lavoro».
Questa sembra oggi la principale mina sul percorso della maggioranza e della legislatura, perché in autunno saranno necessari interventi drastici con il prossimo bilancio. Un’eventuale crisi di governo subito dopo le europee arriverebbe probabilmente tardi per votare in estate: poco importa che qualcuno di Lega o M5S possa avere la tentazione di correre al voto prima di dover affrontare le conseguenze dell’esplosione della spesa corrente generata nell’ultimo anno. In caso di crisi la chiamata alle urne slitterebbe a settembre o ottobre, ma anche questo scenario resta pieno di incognite: significherebbe votare proprio mentre l’Italia deve mettere in piedi il bilancio più delicato dal 2011. Come chi ha ordinato in abbondanza al ristorante, per Lega e 5 Stelle non sarà facile alzarsi e correre verso l’uscita elettorale prima di aver saldato i conti in sospeso.