«Salvini suggerisce a Conte di sfidarlo sulle tasse? Possiamo anche azzerarle, se solo ci dice dove trova i soldi… Ci stiamo un po’ stancando di questo modo di fare». Ai piani alti di Palazzo Chigi l’aria resta pesante. Brucia ancora l’iniziativa di giovedì del sottosegretario Armando Siri, quella disponibilità considerata posticcia a dimettersi in una non ben precisata data, entro 15 giorni dal momento di un incontro coi magistrati non ancora fissato. Il premier Giuseppe Conte lo ha vissuto come una mancanza di rispetto, «a questo punto pure se sarà considerato innocente non ci sarà più posto per lui», promettono inviperiti dalle parti del capo del governo, indispettito e offeso perché, insiste chi gli ha parlato, quando chiede le dimissioni del sottosegretario indagato non lo fa nelle vesti di professore ma di presidente del consiglio, cioè una istituzione che va rispettata. Così fuori di sé da essere arrivato a minacciare «un gesto eclatante»: persino le dimissioni, se dalla Lega e dal suo leader arrivassero frasi o gesti considerati offensivi o provocatori, come sarebbe disertare il Consiglio dei ministri clou dell’inizio della settimana prossima.
In realtà nessuno dei protagonisti, premier incluso, vuole che la minaccia diventi realtà. Significherebbe una crisi di governo a meno di un mese dalle elezioni europee, «una follia» per usare le parole di Salvini. Eppure, averla sventolata è sintomo di una insofferenza crescente di Conte nei confronti del suo irruente vicepremier da cui, giurano a Palazzo Chigi, aveva avuto (vane) rassicurazioni su un passo indietro di Siri. Una insofferenza sempre più difficile da tenere riservata, come dimostrano alcuni episodi: ad esempio quando, in occasione della turbolenta seduta del Consiglio dei ministri di dieci giorni fa dedicata al salva-Roma, Salvini anticipò l’esito ai giornalisti ancora prima che si sv
olgesse. «Come ti viene in mente di farci fare la figura dei passacarte?», era sbottato un solitamente compassato Conte col suo vice, resosi conto che proprio quella era l’impressione, di una riunione finalizzata solo a ratificare le scelte del leader leghista.
Ora, il caso Siri ha arroventato ancora di più gli animi. Il punto, ha spiegato Conte al sottosegretario indagato come a Salvini e ai suoi più stretti collaboratori, non è la vicenda giudiziaria in sé, perché di quello dovranno occuparsi i magistrati. È il sospetto che possa aver presentato un emendamento a favore di qualcuno, che non è accettabile: «La norma non avrebbe offerto una parità di chance per il futuro a tutti gli imprenditori – ha spiegato giovedì davanti ai cronisti – ma vantaggi retroattivi, una sorta di sanatoria solo per alcuni». E a chi gli ha ribattuto che Siri già aveva patteggiato per bancarotta fraudolenta nel momento in cui è stato nominato sottosegretario, la risposta, per quanto opinabile, è stata che lui si sente particolarmente responsabile per tutto quello che è successo dall’avvio del governo: è da quel momento in poi che si sente in qualche modo coinvolto dagli atti di chi fa parte dell’esecutivo. Ed era convinto che tanto bastasse per convincere anche Salvini dell’opportunità di chiedere un passo indietro al suo uomo: in fondo, ha avuto modo di spiegargli, il M5S ha dovuto ingoiare «non un rospo, ma una mucca intera», come ammette sconsolato un grillino, per salvare proprio il ministro dell’Interno dal processo. E ieri Luigi Di Maio per non esacerbare le tensioni ha evitato esultanze scomposte, «non la considero una vittoria del M5S, mi auguro parentesi chiusa», ha cercato di chiudere la vicenda nel modo più indolore possibile.
Dopo una prima reazione a caldo carica di rabbia, ieri Matteo Salvini è tornato con sarcasmo sull’argomento. «Conte mi sfidi sulle tasse, non sulla fantasia», e ancora, «più che sentire Giuseppe Conte vorrei sentire Antonio, per sapere se viene al Milan». Il premier aveva intenzione di cercare il presidente della Repubblica Mattarella, che sarebbe coinvolto da un eventuale decreto per rimuovere Siri, ma non aveva invece nessuna voglia di alzare il telefono per cercare Salvini: per lui, la questione è stata posta, valutata, risolta. E a chi nel Carroccio gli rinfaccia di essere troppo sbilanciato sulle posizioni dei Cinque stelle, ribatte che no, «la Lega la interpreta come una scelta politica per non ammettere che si tratta della decisione giusta». Sa bene però che la vicenda non è ancora conclusa. Il consiglio dei ministri potrebbe essere mercoledì mattina. Se entro quel momento Siri non si sarà dimesso, interverrà Conte. Convinto che la Lega a quel punto debba accettarlo di buon grado. Se dovesse alzare la posta, «se dovesse sfidare, offendere, provocare», elenca chi gli ha parlato, l’arma da fine mondo delle dimissioni la tiene pronta in tasca: «E sarebbe tutta colpa di Salvini».