Come avere torto anche quando nessun altro ha ragione. Come indebolire la propria credibilità anche quando nel resto del mondo si rafforzano i nazional-sovranisti.
Il bilancio internazionale del governo Conte registra un isolamento su tutti i fronti, compreso il “fuoco amico” dai potenziali alleati (Washington).
Economia e conti pubblici, politica estera, alleanze: nulla sembra salvarsi.
Rating rimandato a ottobre
L’agenzia Standard&Poor’s ha deciso di non decidere – fino a ottobre – sul declassamento del debito sovrano italiano. Anche per evitare shock sui mercati a poca distanza dalle elezioni europee, secondo un’analisi della Rabobank. L’Italia resta al livello BBB che è solo due scalini sopra i junk-bond (titoli spazzatura). Il giudizio sulla politica economica del governo è negativo: soprattutto per le pensioni a “quota 100”. Il rating italiano è inferiore a quello della Spagna malgrado l’instabilità politica a Madrid. Il paradosso è che gli avversari dell’Italia sulla politica di bilancio sono anch’essi sono tiro. Il Fondo monetario critica la Germania e la sprona ad aumentare la spesa pubblica. Le due superpotenze che hanno la crescita più dinamica – Cina e Stati Uniti – stanno evitando un rallentamento grazie a deficit pubblici ben oltre il 3%. Ma il governo Conte non ha mai articolato una critica credibile alle rigidità di Bruxelles-Berlino; tantomeno una politica delle alleanze per modificare le regole Ue.
Via della seta senza benefici
La rottura con Washington è datata 6 marzo, quando il National Security Council diretto da John Bolton condanna la firma del Memorandum con cui l’Italia diventa l’unico paese del G7 a partecipare alla Belt & Road. «Quell’iniziativa è fatta dalla Cina per la Cina» ammonisce la Casa Bianca, che esclude «benefici al popolo italiano». L’Amministrazione Trump avverte che potrà «danneggiare la reputazione economica del paese». L’analoga critica da Bruxelles è densa d’ipocrisie: Germania, Francia, Regno Unito e Spagna si preparano anch’esse a entrare nella Belt & Road, anche se dicono di farlo insieme, con una strategia europea (che non esiste, vedi i cedimenti a Huawei per la tecnologia 5G nei telefoni). Conte rivendica un “ruolo d’apripista” ma non incassa vantaggi. Gli investimenti cinesi in Italia sono una frazione di quelli in Germania Francia Inghilterra. Intanto le Nuove Vie della Seta sono bersaglio di critiche dall’Indonesia al Pakistan, dalla Malesia all’Etiopia: troppi debiti, impatto ambientale. Crescono le accuse a Xi Jinping per gli abusi contro i diritti umani degli uiguri islamici: ma l’Italia non ha peso su questi temi.
Libia: umiliati da Trump-Macron
Il divorzio Trump-Conte sulla Libia avviene il 15 aprile. Quel giorno il presidente Usa fa una calorosa telefonata al maresciallo Haftar. Gli riconosce un «ruolo significativo nel combattere il terrorismo e garantire la sicurezza delle risorse petrolifere libiche».
Trump e Haftar discutono «una visione comune per la transizione della Libia verso un sistema democratico e stabile». È un voltafaccia della Casa Bianca, fino a quel momento allineata sulle posizioni italiane, che coincidono con la linea ufficiale dell’Ue e dell’Onu. Di colpo Trump passa con Macron, ne abbraccia la linea apertamente nazionalista. La Francia ha responsabilità enormi in Libia a cominciare dalla guerra del 2011. Però è il governo Conte, umiliato dal comportamento americano, a trovarsi indebolito in un’area cruciale per gli interessi del Paese.
Venezuela: i costi della diarchia
La diarchia è quella tra Maduro e Guaidò, ma anche tra Di Maio e Salvini. Nel momento chiave della crisi venezuelana, a febbraio, il Movimento 5 Stelle vieta al governo Conte di allinearsi con Stati Uniti, Unione europea, e la maggioranza dei paesi latinoamericani che vogliono le dimissioni di Maduro e riconoscono come legittimo il rivale Guaidò. L’Italia rimane a lungo in un limbo d’indecisione, tanto più grave per i legami storici Roma-Caracas e l’importanza della comunità di connazionali in Venezuela. È un passaggio importante per capire il raffreddamento di Washington verso un governo italiano bicefalo, unico al mondo nel vedere la convivenza di un populismo di destra ed uno “maduriano”.
Dopo Draghi, senza italiani ai comandi
Scade il 31 ottobre il mandato di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea. Si chiude un periodo di otto anni in cui la Bce è stata spesso lasciata sola a contrastare la crisi con gli strumenti della politica monetaria, mentre le politiche di bilancio remavano contro. Si chiude soprattutto il regno dell’ultimo italiano in una posizione di grande potere ai vertici delle istituzioni europee.
Dietro di lui c’è un vuoto, una sotto-rappresentazione dell’Italia rispetto alla sua dimensione e stazza economica.
Qualcosa di simile accade nel mondo delle imprese. Un summit organizzato il 17 aprile al Council on Foreign relations di New York (“The International Business Exchange, Transatlantic Commerce in a Post-Brexit Reality”) ha visto alternarsi dei banchieri americani con interessi in Italia: molto elogiativi su medie imprese d’eccellenza, tutte situate da Bologna in su.
Multinazionali tascabili, iper-competitive, ma non in grado di esprimere dei personaggi di peso nell’establishment mondiale. È il paradosso di un’Italia del Nord-Nordest dove il tessuto economico è avanzato, ma non crea una classe dirigente che porti l’Italia a sedersi alla tavola dei grandi. Il dopo-Draghi sarà condizionato dalle elezioni: i nuovi equilibri si rifletteranno non solo nella composizione dell’Europarlamento ma anche di altre istituzioni. Qualunque sia l’avanzata di forze nazionaliste nei singoli paesi, non è una garanzia di rafforzamento per l’Italia, viste le difficoltà di Roma nell’organizzare alleanze all’estero.