Sull’architrave un cartello, donato da un’antropologa giunta dal Guatemala: «Welcome to paradise». O benvenuti all’inferno? «Entrambi. Qui s’incrociano i destini di criminali e santi», risponde Cristina Cattaneo, professore ordinario di Medicina legale alla Statale di Milano. Le narici ti avvertono che sei nel regno dei morti. Oltre la porta, 101 celle freezer. Dentro, sconosciuti congelati anche da 18 mesi. Il carrello teleguidato apre lo sportello, preleva il cadavere e, scorrendo su una monorotaia, lo trasferisce nella sala degli esami autoptici.
Istituto di medicina legale dell’Università, via Mangiagalli 37. Quando non tiene lezione nell’aula magna, dove la cattedra è una teca trasparente che custodisce il tavolo anatomico di ceramica su cui il 30 aprile 1945 fu deposta la salma irriconoscibile di Benito Mussolini, la direttrice del Labanof — il Laboratorio di antropologia e odontologia forense, unico in Europa — è quaggiù a eseguire autopsie, finora circa 500, molte per i casi giudiziari più controversi: Bestie di Satana, Yara Gambirasio, Serena Mollicone, Elisa Claps, Stefano Cucchi, Davide Rossi. L’ultima su Imane Fadil. «Voi giornalisti mi fate imbestialire con questa mania dei delitti celebri», avvampa in viso. «Se a tutti i morti fossero riservate le stesse attenzioni, il mondo sarebbe un posto migliore. Il giorno in cui è arrivata la signora Fadil ero semplicemente di turno. Non esistono autopsie di serie A e autopsie di serie B».
Nel caso esistessero, Cattaneo ha dato prova di preferire le seconde, come si capisce leggendo Naufraghi senza volto (Raffaello Cortina editore), il libro in cui racconta i tre mesi di lavoro nella base Nato di Melilli per identificare una parte dei circa 1.400 migranti affogati nel Mediterraneo il 3 ottobre 2013 e il 18 aprile 2015. «Contando tutte le tragedie dei profughi, stiamo parlando di almeno 30.000 vittime. Il più grande disastro di massa dal dopoguerra a oggi».
Morgue sul mare per una crociata.
«L’ho definita così. Dare un nome ai morti prima di seppellirli è un dovere di civiltà che si assolve soprattutto per i vivi. E un fatto di salute mentale».
In che senso?
«I parenti hanno bisogno di piangere su una tomba per elaborare il lutto. Altrimenti impazziscono, com’è accaduto a molte madri degli oltre 8.000 musulmani bosniaci trucidati a Srebrenica. Per i morti del secondo barcone colato a picco a sud di Lampedusa erano giunte richieste di notizie da 190 famiglie di 12 Paesi africani e da 90 residenti in Europa. Si poteva non dar loro una risposta?».
Quanti cadaveri c’erano nella stiva?
«Ne sono stati estratti 528, con 20.000 ossa sparse di altre 200 persone».
È riuscita a identificare il ragazzino con la pagella che ha commosso papa Francesco e il presidente Mattarella?
«Non ancora, purtroppo. Indossava una giacca leggera. Ho scucito la fodera ed è saltato fuori un foglio prestampato avvolto nel nylon. Era il “Bulletin scolaire” con i voti di matematica, fisica e scienze, vicini alla media del 10. Che aspettative avrà avuto questo quattordicenne del Mali o della Mauritania? E il ragazzo di 17 anni partito dal Gambia che teneva in tasca la tessera dei donatori di sangue? E quello che s’era annodato un angolo della maglietta con uno spago rosso? Credevo che dentro il rigonfiamento ci fosse hashish. Invece era un pugnetto della terra natia».
Che ricordi ha della sua infanzia?
«A 7 anni mungevo le vacche del Bigin, vicino di casa di mia nonna, un bevitore. Ero la sua parrucchiera, gli tagliavo i capelli. Quando cessò di vivere, chiesi a mia madre: di che cosa è morto? “Ha smesso di respirare”. La risposta mi lasciò la voglia di capirne di più».
Di chi era la prima salma che vide?
(Ci pensa). «Non lo ricordo. Strano».
E la prima su cui mise le mani?
«Un’anziana all’obitorio di Lambrate, deceduta per la rottura del cuore. Il mio tutor continuava a ripetermi: “Non vedi che muore? Non vedi che muore?”».
Mi scusi, ma non era già morta?
«Certo. Ma in gergo si dice: “Questo cadavere non mi muore”. Significa che non scorgiamo le cause del decesso. Avrei dovuto vedere il colore violaceo del pericardio invaso dal sangue».
Il Labanof è stato fondato nel 1996. Prima che cosa accadeva?
«I morti senza nome erano di serie B».
Mettete sul Web le foto dei cadaveri ignoti. Non è uno sfregio alla pietà?
«È una necessità. Grazie a queste immagini, nel 2018 le figlie residenti in Croazia hanno riconosciuto il loro padre che era scomparso 20 anni prima. Quando manca il volto, il biologo Davide Porta, che è più bravo di uno scultore, dalla forma del cranio riesce a ricostruire i lineamenti del viso. Ha appena ultimato la testa in creta di sant’Ambrogio».
Stupefacente.
«L’anno scorso la curia ci aveva chiesto d’investigare sui resti del santo, perché si stavano degradando, e su quelli dei gemelli Gervasio e Protasio, posti nello stesso sarcofago per desiderio del patrono di Milano. Pareva una leggenda. Invece l’esame autoptico ha accertato che si tratta di due fratelli di 20 anni, alti 1 metro e 80, uno decapitato e l’altro morto per i colpi di flagello, proprio come descritto nel martirologio. Adesso vorrei ricostruire la storia della città attraverso i 4.000 scheletri custoditi in questo istituto e presso la soprintendenza».
Da piccola dissezionava animali?
«Mai fatto, né ieri né oggi. Altrimenti non riuscirei più a guardare in faccia Ricki, il cane randagio che mi sono portata a casa dalla base di Melilli. Mi sono sempre rifiutata di lavorare su cavie da laboratorio. Anzi, come direttore di Forensic science international sto decidendo con i miei colleghi di rigettare tutte le ricerche basate su esperimenti animali. In ambito medico-legale sono inutili».
L’odore della morte non le resta appiccicato addosso?
«All’inizio, appena tornavo a casa la sera, buttavo tutti i vestiti in lavatrice, non riuscivo a farmelo passare. Poi ho capito che ce l’avevo nella testa».
Qui ci sono più colleghi o colleghe?
«Nelle autopsie siamo metà e metà. Ma ho più allieve che allievi. È una professione umanitaria, richiede una forma di accudimento femminile. Lavori per le Procure e le istituzioni, ci vivi ma difficilmente diventi ricco. Il patologo forense è a rischio di estinzione. Eppure è fondamentale per giustizia e salute pubblica. Pensi ai segni di violenza sul vivente. O alla tossicologia negli incidenti stradali. Un tempo era routine, oggi non si fa quasi più, con il risultato che nessuno sa di che cosa muoiono i nostri giovani».
Quanto dura un’autopsia fatta da lei?
«Da un minimo di cinque ore fino a due giorni. Sono molto cauta. E lenta. Il caso di Yara Gambirasio mi ha insegnato che le cose più importanti sono invisibili».
Si spieghi meglio.
«A occhio nudo non mi sarei mai accorta della presenza di calce. Solo gli stub delle ferite, tamponi adesivi che noi chiamiamo scoccini, hanno permesso di trovarla al microscopio. Da allora li faccio a campione sulla pelle di ogni salma».
Il Dna è sempre una prova regina?
«Una prova forte. Che ci ha viziato un po’ tutti. È una scorciatoia che fa perdere di vista altri elementi importanti».
Il caso più difficile che le è capitato?
«Un omicidio in Lombardia. Stavano per archiviarlo come trauma cranico. La vittima era stata bruciata, i resti dispersi nell’ambiente. Da un osso carbonizzato abbiamo recuperato i frustoli del proiettile e ricostruito il foro d’ingresso».
Sbaglio o lei evita i salotti televisivi?
«Mi vengono i brividi quando in video gli esperti si accapigliano su presunte prove di casi che sono ancora aperti».
Che cosa pensa delle serie tv tipo «Csi: crime scene investigation»?
«Una volta mi davano fastidio. Ora ritengo che siano utili a far conoscere la nostra professione».
Le capita di guardarle?
«Dopo 10-12 ore trascorse a vederle dal vivo?».
È normale che esista un canale satellitare dedicato solo al crimine?
«Non ci ho mai riflettuto. È un aspetto interessante della natura umana».
La morte è «’a livella» di Totò?
«Non direi. Colpa della stampa».
Qual è il lato peggiore dell’autopsia?
«La chiusura. Non sei mai sicuro di aver espletato tutti i prelievi utili».
Si commuove mai nell’eseguirla?
«No. Però mi capita prima, quando vado sul luogo del delitto. O durante il riconoscimento del defunto da parte dei parenti, il momento più straziante».
Sottoporrebbe ad autopsia un suo congiunto?
(Tace per 14 secondi). «Eeeh… Mah! Non lo so. Sarei molto dibattuta».
Non le pesa il contatto con il male?
«È logorante, sì, te ne accorgi dopo 15 anni di obitorio. Ma è controbilanciato dal bene che sta intorno ai morti: quello che hanno compiuto in vita».
È riuscita a spiegarsi l’origine del «mysterium iniquitatis»?
«Al prossimo giro voglio fare la neuroscienziata. La risposta è lì, nel cervello».
Dopo la morte è tutto finito?
«E chi lo sa? Vedremo».
Lo scopriremo solo vivendo.
(Scoppia a ridere).
E se le dicessi che lei non morirà mai?
«Essere immortale perdendo chi ami? Che resti qui a fare, se intorno a te non hai più le persone care?».
Per cui il senso della vita qual è?
«Aver contribuito. A che cosa, non l’ho ancora ben capito. Aver dato».
*Corriere della Sera, 15 aprile 2019