Va bene, non si dovrebbe mai farlo. Non va paragonata la gestione di uno Stato, complessa e piena di obiettivi diversi, a quella di una famiglia. Ma immaginiamo per un momento che noi contribuenti che finanziamo fossimo un solo nucleo, che abita pacificamente sotto lo stesso tetto chiamato Repubblica italiana. Immaginiamo che nella nostra famiglia entrino in tutto 100 mila euro all’anno, mentre abbiamo un mutuo di 130 mila euro. Sarebbe un po’ come la situazione del governo, con il debito pubblico attorno al 130% del prodotto interno lordo. Non è la fine del mondo, a prima vista.
Il reddito della famiglia non cala, ma aumenta giusto di mille euro l’anno: l’equivalente di una crescita dell’1%, quella dell’Italia se si calcola anche l’inflazione. Intanto il tasso d’interesse sul mutuo è del 3%, più o meno uguale il costo medio del debito pubblico oggi.
Cosa succede dopo un anno? I guadagni della famiglia sono saliti a 101 mila euro, il debito è salito a 133.900 euro solo per effetto degli interessi. L’anno dopo gli affari della famiglia vanno meglio (la «ripresa»), quindi il reddito ora aumenta di un altro 2% e arriva a 103.020 euro. Il debito invece esige il solito interesse del 3% e questa volta dunque sale a 137.917 perché la famiglia, non potendolo rimborsare, si limita a spostarlo in avanti rinnovandolo. Il risultato è che nel primo anno la famiglia aveva debiti per 30 mila euro in più rispetto a quanto guadagnasse. Nel terzo anno, automaticamente, la distanza è salita a 34.897 euro. È aumentata del 16%. In soli tre anni la forbice si è aperta sempre di più in un’accelerazione pericolosa, di questo passo.
È la situazione dell’Italia negli ultimi nove mesi e nel futuro prevedibile, perché il ritmo della crescita (inclusa l’inflazione) è sceso parecchio sotto al livello degli interessi sul debito. È il risultato della recessione. E anche se nel 2020 tornasse un po’ di ripresa, è difficile che la forbice si richiuda molto presto. Quando è così la famiglia ce la fa solo se risparmia un bel po’ prima di pagare gli interessi sul debito (il cosiddetto «avanzo primario»).
Su questo sfondo che oggi il governo presenta il suo Documento di economia e finanza, stretto fra ambizioni diverse. Da una parte c’è il ministro dell’Economia Giovanni Tria, al quale la Commissione europea ha privatamente spiegato che non accetterà un programma di qui al 2021 che assomigli a un libro dei sogni. I numeri e i progetti devono avere concretezza. Se si vuole un altro «modulo» di taglio delle tasse — la «flat tax» per le famiglie — bisogna spiegare anche come lo si finanzia. A maggior ragione perché già solo senza aggiungere altro, dopo il reddito di cittadinanza e le pensioni a «quota 100», servono 24 miliardi di nuovi tagli o tasse da decidere tra pochi mesi per mantenere il deficit più o meno uguale nel 2020. Si noti bene: dato il peso degli interessi, anche con quelle economie il debito continuerà a salire quest’anno e il prossimo. Figurarsi senza.
Dall’altra parte invece ci sono la prospettiva delle elezioni europee e gli italiani che chiedono, legittimamente, più potere d’acquisto. A loro la Lega offre la «flat tax» per le famiglie, che secondo il suo leader Matteo Salvini può funzionare con un’unica aliquota per tutti.
Ma che significa in concreto? L’Irpef, l’imposta sui redditi delle persone, è quella che dà più gettito: oltre 170 miliardi l’anno. Cambiarla in profondità muove decine di miliardi e può creare un buco colossale, che andrebbe dunque coperto. Un’idea che nella maggioranza è di farlo riducendo la giungla di deduzioni e detrazioni, giunte ormai a 528 voci diverse dopo che il Pd ne ha aggiunte 24 nel suo ultimo anno e mezzo di governo e i «sovranisti» altre 17 nei loro primi sei mesi (fra le new entry, sgravi ai birrifici e agli sportivi dilettanti). I candidati per la sforbiciata non mancano: ci sono costosi sgravi a cori e bande musicali dilettanti (340 milioni), sgravi sulla cura del gatto dal veterinario, sul corso in piscina del figlio, sull’aria condizionata del ricco in villa e sulle pompe funebri.
A essere proprio sordi alle lamentele delle lobby si possono risparmiare quattro miliardi, ma non certo le decine che servirebbero per la «flat tax». Intanto gli interessi sul debito lavorano come la goccia, una grossa goccia, che scava ogni giorno la roccia. Il principio di realtà può aspettare, ma fino a quando?