Le manovre contabili e legislative per ritoccare i numeri virtuali del Def, non basteranno a Palazzo Chigi per spezzare l’assedio dei numeri reali che arrivano dal Paese. Come bollettini dal fronte di guerra, i dati economici in possesso del governo segnalano un arretramento su tutta la linea, e la previsione di un’ulteriore caduta del Pil per il primo trimestre dell’anno (-0,2%) non rende appieno quanto sia profondo il baratro in cui sta rapidamente precipitando l’Italia.
Persino dietro le buone notizie si celano pessime notizie. E se Di Maio avesse ricevuto i vertici dell’Autorità per l’energia, probabilmente avrebbe evitato d’intestarsi la diminuzione record delle tariffe come un successo. Ma il titolare del Mise ha rotto la vecchia prassi istituzionale, dunque non ha saputo per tempo che la decisione di abbattere le bollette di luce e gas non è tanto legata all’andamento dei prezzi sul mercato internazionale delle materie prime. È soprattutto figlia di una forte contrazione della domanda interna, scesa del 2,2%. In questo dato si nasconde il calo dei consumi industriali, calcolato — secondo fonti qualificate — tra il 7 e l’8%: «Il motivo di questa frenata è la riduzione dell’attività nelle imprese. E siamo solo ai primi mesi dell’anno…».
Eccola la recessione, che penetra nel tessuto produttivo del Paese. Ecco il racconto di un’Italia che si è fermata, per una nuova caduta dei consumi interni e degli investimenti. E non c’è dubbio che l’economia mondiale abbia rallentato, che la locomotiva tedesca abbia smesso di sbuffare come un tempo, ma se persino l’export inizia a perdere forza, allora l’assedio dei numeri al governo si fa ancora più minaccioso. Perché le esportazioni sono l’arma su cui l’Italia ha potuto contare negli anni della Grande crisi, crescendo di 13 punti nel stesso periodo in cui il Pil scendeva di 7 punti: non a caso ieri Di Maio le ha citate come il miglior strumento per «affrontare questo momento».
Ma proprio mentre il vice premier parlava da New York, a Roma i vertici della Simest, società creata dal ministero del Commercio estero, analizzavano l’andamento «tragico» dell’economia nazionale, evidenziando la difficoltà di compensare gli interessi sul debito pubblico con il Pil. La Simest accompagna, con l’Ice e la Farnesina, duecentodieci mila imprese italiane nella competizione sui mercati internazionali: insieme rappresentano la rete che collabora al successo del made in Italy, e sono dunque radar sensibili a ogni variazione sul campo di battaglia.
Il problema è che nel 2018 la spinta propulsiva del settore si è ridotta al 3,1%. In linea con l’andamento delle altre economie certo, ma al di sotto degli standard degli anni precedenti. Un report riservato sottolinea inoltre una forte diminuzione dell’export in alcune aree dove operano i grandi player nazionali, che hanno visto crollare le loro commesse: – 21% in Arabia Saudita, – 15% negli Emirati Arabi, – 13% in Egitto e Turchia, – 7% in Algeria, – 4% in Russia. Chissà se nel governo hanno avuto modo e tempo di analizzare questi dati sensibili, che non si riferiscono all’esportazione di agrumi.
Mettendo insieme i numeri s’intuisce che i provvedimenti all’esame del governo non basteranno a spezzare l’assedio, rilanciando il Pil per «decreto». Ché poi solo una settimana fa Salvini aveva bocciato lo «sblocca-cantieri», parlando con un governatore del Nord: «Così com’è non sblocca niente e dà lavoro solo agli avvocati, perché provoca contenziosi». Ma c’è un motivo se ieri il leader della Lega ha attaccato i «gufi» di Confindustria. Più delle previsioni di «crescita zero» per il 2019, più dell’impatto «irrilevante» offerto da Reddito di cittadinanza e Quota 100, più della febbre dello spread che influisce sul debito, a provocare la sua reazione in stile renziano è stato il passaggio della ricerca sul «progressivo crollo di fiducia delle imprese».
Le imprese, soprattutto al Nord, rappresentano un bacino elettorale fondamentale per la scalata politica del leader leghista, che al contrario di molti suoi dirigenti — assai preoccupati — contesta questa analisi sulla base dei suoi diretti e frequenti contatti sul territorio. Per un partito leninista come il Carroccio, il capo non si sconfessa, però vorrà dire qualcosa se nella sua squadra il vice premier è rimasto l’unico a sostenere (formalmente) le ragioni della permanenza al governo. «Prima erano Salvini e Centinaio. Ora è rimasto solo Salvini», ha raccontato l’altro giorno ad Agorà il dem Fassino, che non sembrava parlare per sentito dire.
È difficile resistere all’assedio dei numeri arroccandosi a Palazzo Chigi, e il ministro dell’Interno non aveva bisogno di sapere da Confindustria e Bankitalia quello che gli aveva già spiegato il sottosegretario Giorgetti: scrivere la prossima legge di Stabilità sarà «un arduo esercizio», né si potrà pensare di varare una manovra di galleggiamento mentre servono «riforme strutturali». L’Italia è ferma e i dati in picchiata dell’economia rischiano di portarsi appresso la maggioranza giallo-verde. L’affannoso tentativo di difendere il fortino adoperando il Def evidenzia assenza di analisi e strategia. Ce n’è la prova nelle dichiarazioni di ieri del premier: «Il rallentamento era previsto». Allora chi ha scritto nella manovra che il Pil sarebbe salito dell’uno percento?