Una crescita tendenziale che quest’anno non supera lo 0,1, e un deficit che di conseguenza viaggia verso quota 2,4 per cento.
Sono questi i due numeri chiave con cui il Documento di economia e finanza certificherà gli effetti della frenata congiunturale e le sue ricadute sulla finanza pubblica. Il quadro tendenziale è ancora provvisorio, anche perché prima dell’appuntamento del 10 aprile con il consiglio dei ministri sono attesi dall’Istat i dati con l’aggiornamento dei conti trimestrali della Pubblica amministrazione e la produzione industriale di febbraio. Ma i ritocchi difficilmente potranno essere superiori al decimale, verso una crescita allo 0,2% e un deficit al 2,3%, anche alla luce degli ultimi calcoli sulla spesa per interessi con uno spread che rimane alto (ieri ha chiuso a 248) ma 20-30 punti sotto i livelli presi a riferimento a dicembre. Un dato in ogni caso ai livelli che in autunno avevano acceso lo scontro con la Ue. Il disavanzo al 2,04% faticosamente concordato con Bruxelles alla fine dello scorso anno è diventato presto un obiettivo irraggiungibile, insieme alla crescita all’1% fissata come obiettivo dopo la “riscrittura europea” della manovra.
Questo dice lo stato dell’arte dei lavori sul Documento atteso in consiglio dei ministri entro il 10 aprile. E si colloca in questo quadro la strategia rilanciata dal ministro dell’Economia Tria con la preparazione del decreto crescita, che anche alla luce dello slittamento deciso ieri entrerà in gioco in modo di fatto contestuale al Def. Il suo compito è quello di rivitalizzare le performance dell’economia nella seconda metà dell’anno, dopo un primo semestre ormai che si attende fra il negativo e il piatto.
Da lì, stimano i tecnici di Via XX Settembre, dovrebbero arrivare gli 1-2 decimali di crescita aggiuntiva che separeranno la linea del tendenziale a politiche invariate da quella programmatica. Un meccanismo, questo, che sarebbe identico a quello seguito due anni fa, quando la «manovrina» arrivata insieme al Def 2017 si concentrò però, in maniera più tradizionale, sulla limatura del deficit (2,3% nel tendenziale, e 2,1% nel programmatico) e non sulla spinta al Pil.
Ma per assumere una forma definitiva, l’accoppiata Def-decreto crescita deve superare il tira e molla all’interno del governo fra chi al Mef punta a una programmazione piena e chi nei partiti della maggioranza vorrebbe rimandare i problemi a dopo le elezioni di fine maggio.
La voglia di rinvio della politica si scontra però con un doppio ostacolo. Le regole Ue impongono entro il 30 aprile l’invio alla commissione del «programma di stabilità», in linea con le norme di contabilità nazionale che consentono di evitare programmi solo in casi eccezionali, come accaduto l’anno scorso quando il Def fu scritto da un governo Gentiloni in carica solo per gli affari correnti dopo le elezioni del 4 marzo.
Ma c’è anche un problema sostanziale legato al messaggio a partner e mercati che Roma invierebbe limitandosi a registrare gli effetti congiuntura negativa, senza indicare come si intende contrastarla. Su un piano più “matematico”, invece, numeri freddi come quelli che saranno scritti nel quadro tendenziale offrono indirettamente un aiuto nel dibattito sui conti italiani che inevitabilmente tornerà a occupare le scene Ue a maggio. Perché in quest’ottica cresce la componente congiunturale del deficit, e si allarga la forbice tra la crescita reale e quella «potenziale»: e a un Paese in queste condizioni le regole Ue chiedono una terapia più leggera.
Ma in ogni caso a essere “leggero” sarà anche il Def. Che dovrebbe indicare un impegno generico alla sterilizzazione delle clausole Iva, tradizionale nei toni ma complicato nella pratica dal valore record (23,1 miliardi) in programma nel 2020. Non dovrebbe mancare un capitolo dedicato agli impegni di spending review. Più incerto lo scenario sul fisco, perché lo stesso Tria ha spiegato in Senato che il dossier sarà affrontato in autunno.