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«La Via della Seta fa tappa in Italia. Più del Memorandum, va letta la Costituzione cinese dove nell’ottobre del 2017 è stata introdotta la Via della Seta come strumento di proiezione geopolitica della Cina». L’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti è stato protagonista per anni di tutti i principali consessi internazionali (dal G7 in giù), ha più volte messo in guardia dai rischi di una globalizzazione accelerata ed è da sempre un attento osservatore della Cina (il suo saggio “Rischi Fatali” risale al 2005). In questa intervista a Il Sole24 Ore invita a ragionare sui tempi che stiamo vivendo, sulla rottura dell’ordine mondiale, sui primi segnali di una possibile guerra fredda tra i due “elefanti globali” Usa e Cina. Una guerra neanche troppo sotterranea, che dall’economia tradizionale arriva fino ai big data. In mezzo ai due colossi del mondo, una fragile Italia all’interno di un’Europa divisa e a breve orfana del Regno Unito.
Professor Tremonti, diceva Mao Tse-tung: «grande è la confusione sotto il cielo». Che sta succedendo nel mondo?
Le rispondo anche io con una citazione: «Il tempo è uscito fuori asse, è andato fuori dai cardini», scriveva Shakespeare nell’Amleto. Si era nel 1602, nel tempo convulso e drammatico portato in Europa da quella che, dopo la scoperta delle Americhe, è stata la prima globalizzazione. Ora il tempo si sta di nuovo sgangherando con questa seconda globalizzazione, soprattutto per effetto della sua crisi. Come allora a rivoluzionare il mondo furono la bussola, la polvere da sparo e la stampa, così ora il mercato globale e Internet hanno rivoluzionato il volto del mondo.
Due grandi potenze dominano il pianeta: Usa e Cina. L’India è per ora l’outsider, l’Europa pare ai margini. Che cosa può accadere?
Faccio una premessa. Al suo inizio la globalizzazione è stata global order, oggi è global disorder. E al posto del vecchio «Washington consensus» abbiamo un opposto e crescente «Washington dissensus». Il vecchio mondo era stabile perché immobile: Occidente contro Oriente, liberalismo contro comunismo. Anche il mondo globale è stato finora ugualmente stabile, ma per la ragione opposta: stabile perché tutto era continuamente e liberamente mobile. Oggi invece il mondo è diventato instabile per una ragione ancora diversa: per i conflitti trans-continentali che trovano espressione tra l’altro con i dazi e le quote. Fino a poco fa si diceva che gli Usa erano una potenza in declino, in realtà oggi sembrano più forti che mai. Davvero è America first, great again.
Però sulla scena globale è arrivato anche quello che lei chiama l’elefante cinese. Cosa è cambiato nel mondo dopo l’ingresso di Pechino nel Wto?
Diceva Napoleone: il mondo tremerà quando la Cina si sveglierà. L’elefante cinese si è messo in moto. Per decenni la politica degli Usa nel commercio internazionale è stata basata sul free trade: il mercato come valore politico assoluto. Anche il rapporto con la Cina, dopo l’ingresso di Pechino nel Wto, è stato “free” e addirittura con clausole di favore perché veniva considerato un Paese in via di sviluppo e in evoluzione verso la democrazia. Si noti che al principio della globalizzazione la politica era caratterizzata da un approccio multilaterale. Questa politica stava entrando in crisi già nell’ultima fase dell’amministrazione Obama ed è terminata con la presidenza Trump che ha comportato deregulation, dazi e quote, difesa della proprietà intellettuale, riforma fiscale attrattiva e passaggio da multilaterale a bilaterale.
La seconda fase è quella in cui la Cina non è più un Paese in via di sviluppo ma una grande potenza politica ed economica globale?
L’attuale balzo della Cina ormai va ben oltre la manifattura, punta ai beni del futuro, all’intelligenza artificiale. Per arrivare alla supremazia globale. O forse per evitare il destino prossimo e terribile portato da una demografia avversa, perché mai nella storia dell’umanità si è visto un così massiccio agglomerato di anziani in una enorme area rurale.
L’attivismo geopolitico della Cina che ricadute avrà all’Occidente?
La storia, che si pensava fosse finita, è tornata con il carico degli interessi arretrati e accompagnata dalla geografia. Sulle carte geografiche e sulle “carte” politiche si vedono i segni premonitori di una escalation. Non più solo guerre commerciali ma una nuova guerra fredda. Non più tra mondo occidentale e mondo comunista, ma tra Usa e Cina. Non più lotte per il primato ideologico, ma per il primato economico e perciò anche politico. Le segnalo un fenomeno, apparentemente marginale: la Cina sta puntando su un tipo di cinema eroico o epico per creare culturalmente quello che Hollywood è stata per decenni, quando tutti nel mondo vedevano i film e volevano sentirsi americani.
La vera battaglia sarà per la supremazia tecnologica?
È già evidente che il principale campo di scontro tra Usa e Cina sarà sui Big Data e l’intelligenza artificiale. La prevalenza di Washington o di Pechino sarà la vittoria della “vecchia” democrazia liberale o del “nuovo” autoritarismo digitale.
In questo nuovo scenario, la vecchia Europa che ruolo può giocare?
Nel 2001 a firmare il Wto, per conto dell’Europa, c’era l’Europa. Ora è la somma che non fa più il totale. L’Europa, un tempo signora della storia, si sta perdendo. Un esempio? La sottovalutazione dell’effetto politico dell’uscita dalla Ue del Regno Unito e/o dell’anglosfera. Persino Nietzsche, un filosofo diciamo “sovranista”, diceva che «un’Europa senza Inghilterra non esiste». Davvero a Bruxelles si pensa che l’uscita del Regno Unito, il distacco dai mari, possa essere compensata rafforzando la dimensione continentale verso i Balcani? La realtà è che l’Europa con il suo mercato è stata al principio l’artefice delle ideologie mercatiste e globaliste più estreme, mentre ora ne è la vittima. Si fa fatica a vedere progetti comuni.
L’Unione Bancaria non è un progetto comune?
Questa Europa ricorda un po’ la fattoria degli animali, dove tutti gli animali sono uguali ma alcuni più uguali degli altri. E così all’Italia si applica il Bail in, in Germania si pianificano macro aiuti di Stato. Più che Unione bancaria pare che abbiano in mente fusioni bancarie orchestrate dal Governo come quella tra Deutsche Bank e Commerzbank.
Nello scontro tra i due colossi Usa e Cina, che partita può giocare l’Italia? Aderire al progetto della Via della Seta è nell’interesse italiano?
Partiamo dal principio. Nel progetto via della Seta la “cifra” politica è di gran lunga superiore a quella commerciale. Lo si chiami come si vuole, ma quello che si formalizza è un patto transnazionale in una materia che i trattati assegnano all’Europa. Il passaggio al “bilaterale” Italia-Cina ricorda l’antica storia degli Oriazi e i Curiazi, ma con i cinesi che fanno gli Oriazi e i romani che fanno i Curiazi. Il nome Via della Seta è suggestivo e a anche soft, in realtà non è solo seta ma una immensa infrastruttura fatta da ferro, cemento, asfalto, costruita per volumi di manifattura crescenti su scala iperbolica, finora mai vista nella storia. Per inciso, forse una riflessione sull’ambiente dovrebbe essere fatta. Tra l’altro è difficile pensare che il maggiore export sia dall’Italia verso la Cina e non il contrario.
In ambienti del Governo italiano si obietta però che altri 15 Paesi europei hanno firmato accordi commerciali separati con la Cina. Come dire: così’ fan tutti…
I Paesi che hanno siglato questi accordi sono Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia. Il caso dell’Italia è un po’ diverso. Non solo è un’economia G7 ma soprattutto ha una posizione geografica che è da sempre strategica nel Mar Mediterraneo. E questo ci riporta al punto di partenza, alla effettiva ratio dell’accordo. Per inciso non ci guadagniamo neanche, perché non c’è neppure la spinta a fare la Tav.
*Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2019