Un sistema produttivo che si risveglia, anche nel Mezzogiorno, in cui emergono «campioni» che provano a vincere la sfida competitiva nel mondo, ma che è ancora troppo limitato per riuscire a contaminare positivamente l’intera economia. La fotografia che emerge dall’indagine de L’Economia sulle migliori imprese presenti nel territorio nazionale conferma le nostre analisi e quelle che diversi centri di ricerca hanno diffuso in questi anni. Si sta consolidando un dualismo tra una quota sempre più piccola di medie imprese che fanno registrare ottime performance sui mercati e sono inserite nelle catene globali del valore, e il resto dell’apparato produttivo, specialmente le imprese di piccole e piccolissime dimensioni, che spesso sopravvivono solo grazie a forme di competizione difensive e al ribasso.
Il primo elemento che emerge dai dati, infatti, è la bassissima quota di Champions del Sud presenti nella Top 100: solo tre con un fatturato tra 120 e 500 milioni. Tra i 500 «piccoli Champions», le migliori imprese con ricavi inferiori ai 120 milioni di euro, le cose non vanno tanto meglio. In questo segmento dimensionale, le aziende localizzate nel Mezzogiorno sono 37, pari al 7,4%: la quota del Sud è dunque il 7,4%, sempre nettamente inferiore al peso economico dell’area, il cui valore aggiunto vale il 23% di quello nazionale. La dislocazione territoriale, poi, è molto disomogenea: circa la metà sono concentrate in Campania (18 imprese) e circa un quarto in Puglia (9), dato che rispecchia il maggiore spessore dell’apparato produttivo e il dinamismo di queste due regioni.
Paragoni
L’indagine sui Champions ci consente anche di delineare il profilo economico-finanziario di questo gruppo di imprese e di metterlo a confronto con quello del Centro-Nord. Emergono dati tutt’altro che scontati. Il fatturato medio delle imprese meridionali è sostanzialmente omogeneo a quello presente nel resto del Paese. Ed entrambi gli indicatori di redditività – ovvero l’Ebitda medio degli ultimi tre esercizi e il ritorno sul capitale investito – sono pressoché identici nelle due macro-aree del Paese, su valori compresi tra il 18-19%. Negli ultimi anni, insomma, le migliori Pmi meridionali hanno dimostrato un’elevata capacità di creare valore, con una redditività pari a quella delle omologhe aziende localizzate nelle regioni più ricche e avanzate del Paese.
Si conferma dunque che nel Mezzogiorno sono certamente ancora presenti, nonostante i duri colpi della crisi, realtà industriali capaci di crescere, dalle performance eccellenti, ben presenti e radicate nei territori. Il fenomeno di «haircut», tipico delle fasi negative del ciclo, ha estromesso dal mercato le imprese inefficienti (ma anche aziende sane, e tuttavia non attrezzate a superare un periodo così lungo e impegnativo) e ha lasciato spazio a quelle più efficienti e produttive. La ripresa, pur debole, del 2015-2017, è stata non a caso trainata dal settore manifatturiero, benché in maniera insufficiente a recuperare i livelli precrisi e a modificare gli effetti strutturali più profondi.
Resta il problema del sempre maggiore ridimensionamento dell’apparato produttivo di qualità, la cui causa risale alla profonda divaricazione tra un settore privato, soprattutto industriale, che mostra capacità di reazione, e un apparato pubblico in costante o persino accelerato declino. Export e investimenti confermano che anche al Sud il settore privato sembra avere fatto la sua parte, mentre è il complesso delle politiche per lo sviluppo e la coesione territoriale – pur con impulsi molto positivi, in particolare con il credito di imposta per gli investimenti e i contratti di sviluppo – a non produrre risultati soddisfacenti, tali da rendere «fertile» il terreno.
Qual è la strada possibile per una «contaminazione» virtuosa, per spezzare il dualismo tra le imprese e tra le aree? Gli esperti, ormai, sostanzialmente concordano: un’azione di politica industriale «attiva», che punti oltre che al rafforzamento e alla difesa dell’apparato esistente anche alla modifica dei suoi elementi di debolezza strutturale, sostenendo dunque l’innalzamento delle dimensioni d’impresa e i processi di aggregazione; l’investimento in istruzione e ricerca; il trasferimento tecnologico; l’aumento dei livelli di internazionalizzazione; il miglioramento delle condizioni di accesso al credito.
I decisori politici stanno seguendo questa strada? Sembra proprio di no. Gli investimenti pubblici, soprattutto in infrastrutture, ricerca e innovazione, leve indispensabili per attivare quelli privati, continuano a crollare. E non solo per le conseguenze dell’austerità ma per una perdita di capacità realizzativa e progettuale di una pubblica amministrazione – gravata da deficit strutturali e inefficienze interne, a tutti i livelli di governo e non solo al Sud – che rappresenta il principale elemento di divergenza rispetto al resto dell’Europa, soprattutto in termini di qualità dei servizi per i cittadini e le imprese.
È un elemento di preoccupazione che diventa vero e proprio allarme a fronte del rallentamento della domanda internazionale, contribuendo a configurare il rischio di una brusca frenata. Quella frenata che l’economia meridionale, e soprattutto la sua società, non possono davvero permettersi. E lascia i suoi campioni a correre su un sentiero solitario, che il resto del gruppo non riesce nemmeno a intravedere.
* Direttore e vicedirettore Svimez, L’Economia, 11 marzo 2019