Il reddito di cittadinanza sta muovendo i primi passi e gli italiani ne stanno prendendo le misure. Code o meno, è interessante e utile monitorare come cambia la relazione tra i cittadini e questo nuovo strumento di welfare nel momento in cui esce dal terreno della propaganda politica e atterra nella vita di tutti i giorni.
Il giudizio sul provvedimento non può che restare negativo: bene che vada lo si può definire un ibrido tra una misura contro la povertà e una norma per ridurre la disoccupazione. Un ibrido che rischia però di creare contraddizioni laceranti nel breve — a cominciare dall’escamotage delle separazioni coniugali pilotate — e un lascito negativo nel medio termine. E allora converrà riflettere pragmaticamente su quali possano essere i suggerimenti (non richiesti) per evitare che il pasticcio iniziale si trasformi nel tempo in un ulteriore handicap strutturale per il nostro sistema di welfare, già messo a dura prova dal susseguirsi di riforme di segno opposto.
La prima considerazione da fare riguarda proprio la lotta contro la povertà ovvero quel segmento del reddito di cittadinanza che riguarda il 75% della platea dei suoi potenziali beneficiari. Parliamo dei poveri non occupabili, nei confronti dei quali l’erogazione di un sussidio è solo la prima mossa che ne richiede successivamente delle altre: accompagnamento, supporto e trasmissione di competenze. Dove si possono rintracciare? Non certo nei Centri per l’impiego, nati per altri obiettivi, bensì nei servizi sociali dei Comuni. Che però non possono essere lasciati senza risorse come purtroppo l’architettura del provvedimento rischia di fare nella misura in cui prevede di destinare al solo 25% dei beneficiari la parte largamente prevalente dei finanziamenti (circa tre quarti). Se veramente il governo ha come obiettivo il contrasto alla povertà — e non le elezioni europee — vanno implementate scelte che restino nel tempo e che quindi migliorino l’esistente senza far terra bruciata del passato.
Il secondo suggerimento riguarda i navigator. Forse non è molto popolare dirlo ma le assunzioni vanno bloccate, è un lusso che il nostro sistema di welfare non si può permettere. Se non esiste un piano realistico di riforma delle politiche attive non si può cominciare ingaggiando nuovo personale senza sapere nemmeno dove farlo sedere. Il finanziamento che copre le 6 mila assunzioni previste ha una durata di due anni, quindi pur senza voler apparire delle Cassandre è facile pensare che stiamo fabbricando oggi i nuovi Lsu, i precari dei lavori socialmente utili degli anni 80, che saranno costretti a organizzare manifestazioni e cortei per anni e anni per tentare di essere assunti in pianta stabile senza per altro avere un impiego fattuale. Anche in questo caso l’appello rivolto al governo è quello di abbandonare una logica clientelare/elettoralistica e muoversi con la responsabilità di chi vuole davvero migliorare le cose.
La terza considerazione che ci sentiamo di avanzare riguarda la collaborazione con i Caf sindacali sancita dall’accordo raggiunto con l’Inps. Come sappiamo i Caf hanno una buona competenza operativa in materia fiscale, sarebbe sicuramente un passo in avanti se allargassero le loro skill anche nel campo del supporto al mercato del lavoro. Dove, come in Lombardia, la Cisl ha avviato sperimentazioni di questo tipo i primi risultati sono positivi. E siccome il mercato del lavoro moderno è fatto di tante transizioni durante la vita lavorativa — e non una sola, quella dalla disoccupazione al primo impiego — coinvolgere il sindacato nella creazione di una radicata cultura dell’occupabilità rappresenterebbe un passo in avanti significativo. Un investimento sociale.
Il quarto e ultimo suggerimento riguarda il rapporto con le Regioni. Italia e Mississippi non sono realtà paragonabili vista la differente articolazione dei poteri e delle prerogative. Con gli enti locali va recuperato un progetto condiviso che si muova in un’ottica inclusiva. Non si può pensare di governare la complessità amministrativa italiana con una bacchetta magica comprata negli States. E se si arriva alla conclusione che è assolutamente necessario rinforzare la pianta organica del personale che si occupa delle politiche dell’impiego, più che disperderli a caso — come tanti navigatori in gurgite vasto — forse converrà assumerli per potenziare le strutture che già esistono e magari utilizzando un meccanismo premiale che valorizzi nell’ambito delle Regioni le buone pratiche.