Una giornata campale che in pieno pomeriggio fa pronunciare ai vertici dei Cinque Stelle le parole più temute: «Sì, a questo punto non escludiamo più neanche una crisi di governo». Come due eserciti in guerra, la Lega e il Movimento muovono soldati e generali per tutto il giorno, studiando le mappe dello scontro, avvenuto in serata, con un vertice tecnico e politico, al quale partecipano il premier Giuseppe Conte, i vice Matteo Salvini e Luigi Di Maio e ancora, per M5S Danilo Toninelli, Stefano Patuanelli e Mauro Coltorti e per la Lega Edoardo Rixi e Armando Siri. Mentre sta per cominciare, arriva la notizia che la Commissione Ue è pronta a inviare una lettera all’Italia per ricordargli che un no alla Tav comporterà la violazione di due regolamenti del 2013 e la perdita di 800 milioni, 300 milioni entro marzo.
Conte, nel pomeriggio, annuncia: «Speriamo di farcela entro venerdì. Useremo un metodo trasparente». In prossimità del vertice, parte una girandola di veline e di soffiate. Salvini riunisce nel pomeriggio ministri e sottosegretari per coordinarsi con i tecnici: obiettivo, demolire l’impianto del no Tav. Ma Di Maio non è da meno e convoca i più talebani tra i suoi, Francesco Ramella e Paolo Beria, che hanno redatto la relazione costi-benefici. C’è anche Pasquale Pucciariello, coordinatore della task force giuridica. E ancora rappresentanti dell’Avvocatura, consulenti tecnici e Pier Luigi Giovanni Navone, del Tfi.
Nel frattempo, partono le voci. I 5 Stelle non vogliono far partire i bandi. Va bene che c’è la clausola di dissolvenza (la possibilità di annullarli entro sei mesi), confermata anche dall’Avvocatura, ma i vertici sono pronti a bloccarla con un decreto della presidenza del Consiglio dei ministri. Non basterà, replicano i leghisti. Perché i consiglieri della Telt, la società di diritto francese ma partecipata da Italia e Francia e con una sua responsabilità giuridica, potrebbero decidere di far partire comunque i bandi, temendo di incappare in responsabilità in caso di mancato via libera.
Una vicenda intricata, che ha bisogno di una soluzione politica per evitare di sfociare in una serie di vertenze giuridiche. Per questo la Lega continua a sostenere le sue tesi, ben consapevole che cedere sulle grandi opere lancerebbe un messaggio devastante al suo elettorato del Nord. L’ultimo messaggio pubblico di Salvini prima di tuffarsi nella riunione è una relazione costi benefici, a suo modo: «Costa di più non farla che farla». Si farà o no? «Il forse non esiste». E poi privatamente a Di Maio: «Noi vogliamo la Tav. Siamo costruttivi e disponibili a modifiche del progetto purché non sia tradito lo spirito iniziale». Con una postilla, che annuncia un possibile esito, anzi due possibili finali. La «via parlamentare» e la «consultazione dei cittadini». La prima è quella già nota da giorni: per fermare davvero la Tav serve una legge di modifica del trattato e i 5 Stelle sono soli contro tutti; quindi se si dicesse che il «Parlamento è sovrano», la Tav partirebbe. Quanto al referendum, non sarebbe certo una consultazione tra i militanti di Rousseau, ma tra una platea ben più larga, con esiti scontati.
Ovvio che i 5 Stelle non apprezzino. E per questo rilanciano le loro soluzioni, con in testa il potenziamento della linea ferroviaria esistente, al posto dell’odiato tunnel base. Ma si tratta con Bruxelles per capire se cambiare il tragitto comporta la perdita dei 300 milioni o possono essere dirottati alla nuova soluzione. Il sindaco di Venaus prova a dare una mano, lanciando l’idea di rifare il tunnel del Frejus, con una galleria di soli 15 chilometri. Il costo? Dimezzato.