La mossa di Luca Zingaretti ha irrigidito Matteo Salvini. Nel primo giorno da segretario del Pd è volato a Torino e ha sfidato il leader leghista sul suo terreno, sui ceti produttivi e quella parte dell’opinione pubblica che vede nei 5 Stelle il freno allo sviluppo e alla crescita economica. Il nuovo leader dei Democratici dice subito un Sì netto e chiaro alla Tav, indicando la Lega come «il partito che affonda il Nord», legato a un Movimento al quale non riesce ad imporre un’opera essenziale come la Torino-Lione. Con queste premesse, Matteo Salvini arriva molto teso ieri al vertice. L’umore nero e lo sguardo stanco di chi non sta dormendo; confessa «che non ne può più» di dover inseguire le turbolenze grilline. Il risveglio storto di chi legge l’intervista del neosegretario Pd che punta dritto sulla Tav che è diventata quasi una nemesi per il giovane leghista che sognava la secessione, e che ancora insegue l’autonomia. Essere contro il Nord, inaccettabile per Salvini che vede il Pd ridiventare competitivo proprio in quella regione, il Piemonte, dove si vota il 26 maggio, giorno delle elezioni europee. E che il leader del Carroccio pensava di colorare di verde. L’ultimo spazio geografico che gli manca al Nord. E allora il malumore supera la tattica e la pazienza, e diventa il carburante per tentare di sfondare la resistenza passiva del M5S, degli alleati che invece hanno appeso al chiodo di quel No la loro stessa sopravvivenza.
Il ministro dell’Interno ha pure sentito al telefono Giancarlo Giorgetti che dagli Stati Uniti gli ha riferito dei suoi colloqui americani nei quali tutti hanno insistito sulla necessità di aprire in Italia i cantieri e facilitare gli investitori stranieri. Così, prima di entrare a Palazzo Chigi per partecipare al vertice con Luigi Di Maio e Danilo Toninelli, chiama il premier Giuseppe Conte per chiarire le sue intenzioni. «Non si può più tergiversare, rinviare, prendere tempo: la Tav va fatta, non ci sono alternative». Il presidente del Consiglio in quel momento sa che la linea dura del vicepremier del Carroccio non lascia scampo agli alleati. Anche lui, personalmente, è favorevole alla Torino-Lione, ma vorrebbe un accordo, evitare rotture, portare tutta la maggioranza gialloverde a sbloccare il dossier e far partire il cantiere della discordia. In sostanza Conte si schiera con Salvini e lo comunica per primo a Toninelli. Il quale a quel punto sente il terreno franargli sotto i piedi: «Se le cose stanno così, io mi dimetto».
Il vertice a Palazzo Chigi si preannuncia incandescente. Il presidente del Consiglio vuole però evitare che la situazione sfugga di mano. Ha chiaro che le dimissioni di Toninelli potrebbero provocare una frana nel governo, anche perché a quel punto sarebbe difficile per Di Maio far finta di niente o addirittura passare per quello che accetta di dire Sì alla Tav con buona parte del Movimento sulle barricate. E il suo ministro dimissionario. Conte è costretto a richiamare Toninelli, gli chiede di restare: «Danilo, troveremo una soluzione, una buona mediazione per tutti». Il pericolo rientra, il corto circuito per il momento è evitato. Ma quando inizia il vertice il clima non è, ovviamente, dei migliori. Il ministro dell’Interno fa presente il rischio di far perdere all’Italia credibilità agli occhi degli investitori italiani e stranieri. Di Maio, spalleggiato dal ministro delle Infrastrutture, ribadisce la posizione No Tav che ha sempre caratterizzato le battaglie M5S fin dalle origini. Non se ne esce da questo muro contro muro. Conte, spaventato anche dall’ipotesi di una scissione dentro il M5S, prova una mediazione di fronte all’impossibilità anche di immaginare mini-Tav, riducendo al massimo le spese, come ha sempre suggerito Salvini. Toninelli, il più duro a tenere testa al leader leghista, ribadisce la possibilità di potenziare il Frejus, dirottare su questa infrastruttura buona parte delle risorse che sarebbero destinate all’Alta velocità Torino-Lione. Per rendere più robusto il collegamento con la Francia, dice il ministro, si potrebbe inoltre sviluppare la Genova-Ventimiglia: del resto è quello che vorrebbero anche i leghisti liguri, è una proposta che fa spesso il suo viceministro Edoardo Rixi.
Niente da fare. Per Salvini la Tav si deve fare, il resto pure. In mezzo c’è Conte, che chiede ai giovani alleati di stabilire una tregua, una premessa a tutto. «Vi chiedo solo di impegnarvi a non far cadere il governo, qualsiasi sarà la scelta finale». In fondo, è l’ipotesi del premier, possiamo far partire i bandi, evitare di perdere i 300 milioni di Bruxelles. Insomma prendere tempo. Ma Salvini vuole che questa scelta arrivi presto. Sembra infatti smentire il premier che aveva detto che la decisione finale arriverà venerdì. La parola fine sarà messa «domani » (oggi per chi legge), sono state le parole del leghista. Le dimissioni del ministro dei Trasporti sono state accantonate, ma è pronto a rimetterle sul tavolo di Conte in caso di cedimento alle posizioni leghiste. «Basta – avrebbe detto Di Maio – abbiamo ceduto su troppe cose. E Salvini si deve ricordare che non sono state approvate ancora né l’autonomia regionale né la legittima difesa».
Questa sera, di ritorno da Belgrado, Conte ha fissato un nuovo vertice, più tecnico. La sua speranza è riposta a Bruxelles. Ha affidato ai canali diplomatici una nuova ipotesi di negoziato. È in attesa di capire se dalla Commissione potrebbe arrivare il via libera a una nuova ipotesi di lavoro. Riguarderebbe, appunto, la vecchia proposta di rinforzare la linea storica, sostenuta da sempre dai 5 Stelle. Secondo i grillini ci sarebbero margini per convincere Salvini. Perché, dicono nel Movimento, «quello che serve a leader del Carroccio è una buona idea da poter rivendere agli imprenditori sfiduciati del Nord». Servirebbe anche a Conte per trovare una soluzione, a oggi, impossibile, rinviando il problema di qualche mese, fino a dopo le elezioni. Uno scenario che fino all’altro ieri sembrava andare bene alla Lega. Ma le cose sono cambiate dopo la vittoria di Zingaretti e il posizionamento del Pd sulla Tav in competizione con la Lega.
Ma se a questo punto dopo averle tentate tutte, davvero lo stallo non dovesse trasformarsi in tregua, cosa farà Conte? I 5 Stelle sono pronti davvero a mandare a casa questa maggioranza come dice il moderato uomo del Nord grillino Stefano Buffagni, recuperando lo spirito della lotta identitaria? Oppure, come sostengono ai vertici della Lega e come teme Conte, i 5 Stelle potrebbero spaccarsi, al punto da lasciare un pezzo al governo e un altro a partecipare ai cortei No Tav con Beppe Grillo? L’alternativa è il congelamento della Torino-Lione fino alle elezioni europee, opzione tecnicamente complessa. Dopo il vertice Conte è sceso in piazza Colonna per dire di non essere preoccupato, che non c’è alcun motivo per immaginare una crisi di governo perché verrà presa una decisione «per tutelare l’interesse nazionale».