Brugine è un piccolo paese di campagna a pochi chilometri da Padova. È facile immaginarne il passato contadino e una vocazione agricola, un po’ meno immediato pensare che nella zona industriale, piatta e anonima come qualunque zona industriale, si nasconda un campione di innovazione Italian Style. Una di quelle aziende, per intenderci, che non cambieranno il mondo: non siamo la Silicon Valley, con un proprio sistema alle spalle, loro devono fare di necessità virtù e muoversi nelle nicchie. Ma in quelle, poi, non sono seconde a nessuno. Al punto, a volte, da inventare da zero mercati cui prima nessuno aveva pensato.
Sconosciuti di successo
La Carel nasce così. Oggi fattura 255 milioni (dato 2017, il 2018 dovrebbe mostrare un’ulteriore crescita attorno al 9%), ha una redditività operativa vicina al 20%, produce oltre 15 centesimi di utile netto per ogni euro di ricavi, il ritorno sul capitale investito supera il 26%. Sono performance più da società del lusso (e anche lì non è tanto comune) che da manifattura, per quanto hi tech. E sono una costante, non il frutto di exploit casuali.
Abbinati, i due fattori fanno del gruppo padovano una delle migliori aziende italiane in assoluto: a metà marzo, quando presenteremo l’edizione 2019 dei Champions L’Economia-ItalyPost, Carel comparirà tra le Top 100 della fascia 120-500 milioni di fatturato. Il fatto che il suo nome dica poco o nulla al di là un ristrettissimo giro di addetti ai lavori, come del resto succede con quasi tutti gli altri campioni della stessa Top 100 e ancor più della Top 500 (i piccoli, fino a 120 milioni di ricavi, la cui classifica aggiornata mostrerà un bel tasso di dinamismo), dice molto di quanto il Paese conosca la propria anima economica e produttiva. Siamo la seconda manifattura d’Europa, ma non sappiamo chi siano i suoi protagonisti. Ci lamentiamo di avere sempre meno grandi gruppi ma, ignorando i piccoli sconosciuti di successo, non facciamo nulla per creare un habitat che permetta loro di crescere «oltre». Suoniamo l’allarme quando soffiano i venti di recessione, perché è un fatto che le piccole e medie imprese siano le più fragili e dunque le più esposte, ma non ci preoccupiamo di modelli che invece proprio nella Grande Crisi hanno tenuto, ne sono addirittura usciti più forti, ci hanno permesso di correre con la ripresa ieri e ci consentiranno probabilmente, oggi, di attenuare gli effetti di una tempesta che qua e là già si sente.
Ecco, Carel è una di queste aziende. Spiegare che cosa faccia in termini non ingegneristici — «Componenti per apparecchiature e impianti di condizionamento e refrigerazione» – non è semplicissimo, e a Brugine forse non se ne sono fatti un problema finché, un paio d’anni fa, non hanno deciso di quotarsi in Borsa, segmento Star. Cosa che è avvenuta l’11 giugno scorso, mentre già il Toro scappava e altri candidati a Piazza Affari cancellavano il progetto listino dall’agenda (a volte per necessità: domanda in picchiata). Loro no. Devono essersi presi anche dei «matti», di sicuro — lo ammettono — «qualche giorno di tribolazione» l’hanno passato. Però avevano ragione. Uno: se è vero che non hanno portato a casa il massimo, è vero pure che da quell’11 giugno l’indice Ftse Star ha perso suppergiù l’11% e Carel ha guadagnato quasi il 10%. Due: è meglio farselo raccontare da loro. Il presidente Luigi Rossi Luciani, il vicepresidente esecutivo Luigi Nalini, l’amministratore delegato Francesco Nalini.
I primi due sono i fondatori, i ragazzi (nonché cugini) degli Anni Settantache a un certo punto presero un piccolo ramo dell’azienda di famiglia, capirono che solo con gli armadi elettrici e senza innovazione non avrebbero fatto troppa strada, si inventarono una cosa che non c’era. Semplifichiamola così: presero tre ingegneri e li misero a studiare la possibilità di standardizzare la produzione dei «cervelli» che coordinano i grandi impianti di condizionamento e/o refrigerazione (per i data center, per esempio, o i grattacieli, o i banchi frigo dei supermercati). Funzionò al punto che oggi Francesco Nalini, figlio di Luigi, guida un gruppo passato da quei primi tre ingegneri a oltre 1.400 dipendenti e proiettato sull’estero: vent’anni fa la Carel produceva solo in Italia e di fatto solo per l’Europa (dove è leader) , poi sono arrivati Croazia, Usa, Brasile e Cina, entro quest’anno l’ampliamento delle fabbriche (e dei centri di ricerca) in Cina e negli Usa consentirà di raddoppiare la potenzialità produttiva.
La via della Borsa
Loro dicono, e l’analisi dei bilanci conferma le capacità di autofinanziamento, che non avrebbero avuto bisogno della Borsa per supportare gli investimenti, una crescita media annua che dal 2011 è pari all’11%, le risorse destinate «all’elemento chiave: a Ricerca & Sviluppo dedichiamo circa il 6% del fatturato». È coerente con il fatto che non c’è stata emissione di nuovi titoli, le azioni le hanno cedute loro (mantenendo però il 60% del capitale e il 75% dei diritti di voto). Aggiungono perciò anche di non essere andati in Piazza Affari per monetizzare e magari speculare (in effetti, ci sarebbero stati momenti migliori): «Pensiamo semplicemente sia il modo migliore per continuare a sostenere lo sviluppo».
Il punto è che «quando un’azienda va bene, soprattutto se è un’azienda familiare, il rischio di sedersi sugli allori e diventare autoreferenziali c’è. Con la quotazione sei costretto a confrontarti con il mercato, a strutturare anche la governance di conseguenza. E sei lì: se arriva l’occasione di investimento che ti può far fare il salto impossibile con il solo autofinanziamento, sul mercato dei capitali ci sei». Non la pensano tutti così, i piccoli medi imprenditori italiani, nemmeno tra i Champions. Ed è comprensibile, la diffidenza ad aprire le porte di quel che si è costruito da soli e spesso dal nulla. Ma quelle porte chiuse sono poi, altrettanto spesso, il semaforo rosso che ferma la crescita.
*L’Economia, 28 gennaio 2019