Fosse un film, si potrebbe intitolare “Mario Draghi 2, il ritorno”. Trama? Dopo aver bloccato la conferma del vicedirettore Luigi Federico Signorini, i grillini bocciano il 9 maggio anche quella del direttore generale Salvatore Rossi e dell’altra vice Valeria Sannucci. Senza alternative. Ridotto a due soli componenti, il governatore Ignazio Visco e il vicedirettore Fabio Panetta, il direttorio è paralizzato. Non può prendere nessuna decisione. Il potere passa dunque tutto e subito alla Banca centrale europea: ritornando nella mani di quel Mario Draghi che è stato fino al 2011 governatore.
Un paradosso, che finirebbe per rafforzare ancora la tecnocrazia europea così deprecata da chi predica il cambiamento, ma seguendo orme già tracciate in un passato altrettanto deprecato.
Basterebbe ricordare quella di Antonio Fazio. L’ex governatore Ciampi puntava da palazzo Chigi sul suo pupillo Tommaso Padoa-Schioppa tagliando però la strada al legittimo pretendente, il direttore generale Lamberto Dini, che aveva il sostegno degli andreottiani: già sul viale del tramonto ma ancora potenti. E fra i due litiganti, spuntò Fazio.
L’anno seguente Dini era al Tesoro. Al posto lasciato vuoto in Bankitalia e in teoria spettante a Padoa-Schioppa vedeva Paolo Savona o l’ingombrante direttore del medesimo Tesoro Draghi. Passò invece Vincenzo Desario, sponsorizzato dal ministro di An Pinuccio Tatarella. Anche in seguito le scaramucce non sono mancate. Ma sempre con una bella differenza rispetto a ora: che il braccio di ferro era sui candidati, le cui qualità non erano quasi mai in discussione. Qui, invece, il braccio di ferro è fra il candidato del governatore, Signorini, e il Nulla. Basta che si cambi, anche senza sapere con chi. Al punto da chiedere a chi vogliono cacciare il nome del possibile sostituto, per poi magari intestarselo.
Considerata da sempre un serbatoio di classe dirigente e ganglio nevralgico del sistema, la Banca d’Italia per i nuovi potenti altro non è che il covo della élite amica di banchieri e dei vari Soros accusati di affamare il “popolo”. Complice dei disastri bancari per presunto deficit di vigilanza nonché dei tecnocrati di Bruxelles che hanno inventato il perfido “bail in” al solo scopo di scaricare gli effetti dei crack sugli ignari risparmiatori. Anche se in Italia quel “bail in”, indicato dal contratto di governo come il colpevole “dell’esproprio” dei risparmi che le famiglie “supponevano essere investiti in attività sicure” (pagina 14) in realtà non è mai (mai!) stato applicato. Circolano così anonimi dossier di stampo maccartista che sospettano di simpatie comuniste uno come Signorini, che faceva parte della gioventù liberale. O voci infondate di un direttore generale, Rossi, già sull’uscio in attesa della pensione. Perché il prossimo obiettivo è proprio lui.
Lui, insieme a Valeria Sannucci: in scadenza il 9 maggio, due settimane appena prima delle elezioni europee. E se il buon giorno si vede da Signorini hanno entrambi poco da stare allegri. Il Nulla incombe anche su di loro. I segnali non sono affatto incoraggianti. Ieri è scaduto il vertice dell’Ivass, l’istituto che vigila sulle assicurazioni presieduto dal medesimo Rossi. Il governo ha riconfermato solo uno dei consiglieri, ma per tenere in vita il vertice al minimo di legge evitando che la responsabilità civile e penale finisse personalmente sulle spalle del premier Giuseppe Conte. Visco, però, non intende mollare su Signorini. Cedesse, crollerebbe tutta la diga. Così a via Nazionale ci si attrezza per la resistenza in una battaglia di posizione presumibilmente durissima. Se n’è avuto un assaggio alla vigilia delle elezioni abruzzesi, con Salvini e Di Maio a martellare la Banca d’Italia davanti a risparmiatori infuriati.
«Chiediamo discontinuità!», s’infervorava Di Maio. E Salvini gli faceva eco: «Chi doveva controllare non ha controllato, Banktalia e Consob andrebbero azzerati e si offendono se cambiamo uno o due tizi». Per Visco e tutto il direttorio, del resto, le campane grilline e leghiste suonano a morto da mesi, non senza qualche stonatura. «Visco va cacciato per l’omessa sorveglianza», ha tuonato il senatore del M5S Elio Lannutti, ex dipietrista, dopo averne chiesto nientemeno che l’arresto. Ma è la stessa persona che applaudiva alla sua nomina così: «E’ uno perbene, questa soluzione restituisce dignità e prestigio alla Bankitalia». Salvini, invece, non l’aveva mai digerito: «La riconferma di Visco è un colpo di coda dei poteri forti», commentò a rinnovo del governatore avvenuto, lo scorso autunno. Mentre Di Maio sibilava: «Visco lo ha messo il Pd», dimenticando che la nomina originaria risaliva invece agli ultimi giorni del Berlusconi IV.
Anche Matteo Renzi, per dirla tutta, avrebbe volentieri silurato il governatore. C’è chi suppone che ce l’avesse con lui dal tempo in cui gli ispettori della Vigilanza avevano fatto saltare il tappo della Banca Etruria di papà Boschi, ma forse è solo una maldicenza. Di sicuro la commissione d’inchiesta sulle banche era apparecchiata anche per fare lo scalpo a Visco.
Che però l’ha conservato, al contrario di Renzi.
Ora invece a rischiare lo scalpo è la Banca d’Italia. Le mediazioni, per evitare una tempesta perfetta senza che chi la sta preparando si renda minimamente conto delle conseguenze, sono affidate al sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti. Ma con l’aria che tira niente si può escludere. L’istituto di via Nazionale fa parte dell’Eurosistema. Cioè è un pezzo della Banca centrale europea. Se non fosse più in condizioni di operare causa direttorio ridotto al lumicino, le subentrerebbe quindi in tutto e per tutto la Bce.
Ciò significa, per esempio, che i funzionari della Vigilanza non seguirebbero più le direttive impartite dall’Italia, sia pure su input di Francoforte, bensì direttamente da Francoforte. E questo non soltanto per la banche grandi già soggette alla Bce, ma anche per quelle piccole, certo più care delle grandi a Salvini e Di Maio. Semplicemente il colmo, per un governo sovranista che predicava la nazionalizzazione della banca centrale e se la ritroverebbe privata di qualunque sovranità. A questo, come spiegano gli esperti, si aggiungerebbe inevitabilmente una procedura “urgente” d’infrazione europea. Sarebbe il primo episodio del genere nella storia dell’Unione monetaria, con tutti i riflessi del caso. Ragion per cui si sta riservatamente valutando ogni eventuale misura d’emergenza. Inclusa una mossa del Consiglio superiore, organismo che predispone le nomine, il quale potrebbe forse applicare alla Banca d’Italia in autonomia l’istituto della prorogatio dei vertici, ora non prevista. Così da avere 45 giorni di fiato dopo il 9 maggio. Giusto il tempo per scavallare le elezioni europee. E sperare che nel frattempo qualcuno sia rinsavito.