Da giorni sia Luigi Di Maio che Matteo Salvini chiedono un ricambio ai vertici della Banca d’Italia e, qualunque sia l’idea dei vicepremier, non è la prima volta che la maggioranza si occupa dell’argomento. Né è la prima volta che M5S e (almeno) alcuni esponenti della Lega lo fanno in maniera poco convenzionale. Le posizioni del governo in questi giorni non nascono nel vuoto e appaiono sotto una luce un po’ diversa, se lette nella prospettiva degli ultimi mesi.
Già l’atto di nascita dell’esecutivo fu segnato da una sfida alla banca centrale, oltre che alle leggi italiane e europee a difesa della sua indipendenza. A maggio scorso, la prima bozza del contratto di governo giallo-verde prevedeva la «cancellazione» di 250 miliardi di debito pubblico italiano acquistati dalla Banca centrale europea con il quantitative easing negli ultimi quattro anni. Quella bozza non lo precisava, ma la perdita sarebbe stata quasi tutta a carico della Banca d’Italia; è quest’ultima infatti che, su mandato della Bce dal 2015, ha acquistato titoli del Tesoro per circa 365 miliardi. Quell’ipotesi di rimuovere più del 10% del debito attraverso un default sull’istituto centrale, che peraltro rispedisce come dividendi al Tesoro gli incassi sulle cedole sui suoi titoli di Stato, poco dopo sparì. Ma Banca d’Italia non ha smesso di essere nei pensieri di parte della maggioranza.
È dell’autunno per esempio una proposta di legge del presidente della commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi (Lega): lasciare le riserve auree in gestione alla Banca d’Italia, ma decretare che la proprietà è «dello Stato» e quindi la disponibilità appartiene al governo. Non è chiaro quanto sostegno abbia questa proposta, ma essa richiama un sottinteso delle polemiche di questi giorni: la Banca d’Italia possiede lingotti e monete d’oro che valuta a 84,8 miliardi di euro e nel complesso ha attivi per 963 miliardi — oltre metà del reddito nazionale — inclusi 40 miliardi in valuta estera e 18 di crediti «verso le pubbliche amministrazioni». Peraltro almeno il valore di mercato delle riserve auree di Banca d’Italia è senz’altro superiore alle poste segnate in bilancio. Un’operazione con pochi scrupoli potrebbe far emergere plusvalenze improvvise.
Non sono dettagli destinati a passare inosservati. Neanche per un governo che nella prossima legge di bilancio deve trovare almeno 25 miliardi di tagli o nuove tasse solo per stabilizzare il deficit, mentre l’economia resta ferma o in caduta. Naturalmente provare a toccare i forzieri della Banca d’Italia nell’illusione di far tornare i conti non sarebbe solo illegale; darebbe anche un segnale di confusione e perdita di controllo al quale gli investitori reagirebbero come hanno fatto già alla prima bozza di bilancio in autunno: uscendo dall’Italia e lasciando che le fiamme divampino sul mercato del debito.
Giovanni Tria, il ministro dell’Economia, lo capisce benissimo. Anche di recente si è confrontato al Quirinale e tra l’altro ha dall’inizio un ottimo rapporto con i vertici della Banca d’Italia. Il suo richiamo alla necessità di rispettarne l’indipendenza sarà anche «banale», come ha detto lui stesso, ma non suona casuale. Del resto la situazione nell’organo di guida operativa della Banca d’Italia resta delicata e una paralisi nelle nomine da qui a metà anno porterebbe a un direttorio con solo due componenti su cinque, di fatto messo nell’impossibilità di decidere e agire.
In realtà la legge prevede che le nomine nel direttorio, salvo quella del governatore, siano indicate dal Consiglio superiore della stessa Banca d’Italia e confermate con un decreto del presidente della Repubblica — «promosso» dal premier Giuseppe Conte e da Tria — una volta «sentito il Consiglio dei ministri». Dunque il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha diritto di confermare le nomine in direttorio anche se il parere del Consiglio dei ministri fosse negativo. E il governo non può indicare persone di sua preferenza. Se però semplicemente bloccasse le procedure di nomina omettendo di inviare al Quirinale un proprio parere sui nomi designati, violerebbe la legge italiana e le regole europee che garantiscono l’indipendenza delle banche centrali come condizione perché esse funzionino. La pressione da Bruxelles e da Francoforte sull’Italia, a quel punto, diverrebbe ogni giorno più forte.