Il reddito di cittadinanza rischia di avere un effetto “scoraggiamento” al lavoro. Sotto la soglia di 9.360 euro annui destinata a un single con Isee zero, infatti, troviamo ben il 37,5% dei lavoratori al Sud, ovvero 1,3 milioni di persone; e anche il 21,2% di occupati al Nord, pari a oltre 1,7 milioni di addetti. Al Centro si collocano sotto i 780 euro al mese il 27% dei lavoratori, vale a dire più di 837mila unità.
L’elaborazione sulle banche dati Inps, lavoratori dipendenti, che pubblichiamo qui accanto, è relativa al 2017 (i 9.360 euro di imponibile sono addirittura lordi annuali). Se si tiene conto anche di collaboratori, partite Iva, autonomi, si arriva, nel Mezzogiorno – come ha spiegato il presidente dell’Inps, Tito Boeri, lunedì in audizione al Senato sul decretone – a quasi il 45% dei dipendenti privati che possiede redditi da lavoro netti inferiori a quelli garantiti dal reddito di cittadinanza a un individuo single e con Isee zero.
Ma quanti percettori della nuova misura di politica attiva e contrasto alla povertà riceveranno trasferimenti monetari così elevati? Sempre secondo stime Inps, circa il 30% dei beneficiari del reddito di cittadinanza avrà una “erogazione” uguale o superiore ai “fatidici” 9.360 euro netti annui. Ciò perché la persona fa parte di nuclei con più componenti (nel caso di una famiglia con due figli, che vive in affitto, il sussidio arriva a 1.180 euro, che raggiungono i 1.330 euro, se i figli sono tre).
Il valore mediano della distribuzione dei trasferimenti è calcolato attorno ai 6mila euro, sempre secondo l’Inps; una cifra che è pur sempre più alta del 10% dei redditi da lavoro più bassi.
Alle stesse conclusioni è giunto ieri l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) che per voce del presidente Giuseppe Pisauro ha lanciato l’allarme sul possibile rischio di “comportamenti opportunistici” considerando che, per chi ha un reddito da lavoro inferiore, il sussidio del governo Conte può rappresentare «un disincentivo» al lavoro. E questo soprattutto al Sud, caratterizzato da retribuzioni modeste legate a rapporti part-time o di collaborazione, per i quali l’attività lavorativa, quindi, non risulterebbe economicamente conveniente.
L’effetto “scoraggiamento” al lavoro appare più vistoso per i giovani penalizzati, come noto, da salari d’ingresso più bassi in una struttura retributiva che cresce con l’anzianità. I numeri sono stati ricordati nell’audizione di lunedì da Confindustria: in Italia lo stipendio mediano degli under30, al primo impiego, si attesta sugli 830 euro netti al mese. Che diventano 910 euro al Nord (820 euro per i non laureati) e scendono a 740 euro al Sud (700 euro per i non laureati). Una soglia molto vicina ai 780 euro mensili di reddito di cittadinanza prevista per un single a Isee zero. Non a caso anche Confindustria paventa il rischio, concreto, che i giovani possano essere scoraggiati dall’accettare un impiego. Il sistema, così come oggi normato, prevede la perdita del beneficio solo al terzo rifiuto di un’offerta congrua (già dal primo rifiuto, però, il governo intende far scattare i controlli di Gdf e ispettori del lavoro in chiave anti-sommerso).
Peraltro, allargando lo sguardo alle altre esperienze europee, che si sono dotate di strumenti di reddito minimo condizionato, le percentuali di reinserimento lavorativo sono piuttosto basse anche nei contesti istituzionali più virtuosi. In altri paesi Ue, con livelli di disoccupazione più bassi e servizi per il lavoro maggiormente performanti, queste politiche infatti riescono a far assumere stabilmente tra il 20 e il 25% dei beneficiari. Raggiungere già queste soglie rappresenterebbe una grande sfida per l’esecutivo, considerando il punto di partenza. Cioè che oggi i centri per l’impiego intermediano appena il 3% delle forze lavoro.