Da settimane i gilet gialli hanno due rivendicazioni fondamentali: le dimissioni di Macron e il Ric, il referendum di iniziativa popolare. Il capo dello Stato, che ovviamente non ha alcuna intenzione di dimettersi, potrebbe rispondere con un referendum di iniziativa presidenziale, concesso dall’alto, da tenersi magari il 26 maggio, la stessa domenica delle elezioni europee.
È un’ipotesi che gira da qualche giorno, rilanciata in prima pagina dal Journal du Dimanche e non smentita dall’Eliseo: «Valutiamo ogni opzione ma niente è stato deciso», ha detto ieri l’entourage del presidente. I quesiti proposti potrebbero essere più d’uno e riguardare argomenti istituzionali, come la riduzione del numero dei parlamentari, il conteggio delle schede bianche alle elezioni o il divieto di doppio o triplo mandato. Macron potrebbe ricorrere al referendum come atto di chiusura definitiva dell’esperienza dei gilet gialli, un modo per dimostrarsi ancora una volta attento alle loro richieste — dopo il ritiro della carbon tax e gli 11 miliardi di misure per il potere d’acquisto — ma pilotando il contenuto della consultazione.
Dopo una prima fase di stesura del cahier des doléances, la lista delle lamentele dei cittadini raccolte da sindaci e altri rappresentanti locali, il 15 gennaio è cominciata la seconda fase del «grande dibattito nazionale» voluto da Macron per assecondare i gilet gialli e il loro desiderio di essere più ascoltati. È un’idea che si sta rivelando positiva per Macron: accusato di essere arrogante e distante dal popolo, in questa fase i francesi lo vedono invece pronto a mettersi in maniche di camicia e parlare per ore e ore con i sindaci.
Oggi il presidente sarà per la prima volta nella periferia di Parigi, a Evry-Courcouronnes, un comune di circa 70 mila abitanti a una trentina di chilometri a sud della capitale. Giovedì invece Macron incontrerà i giovani in Borgogna. I dibattiti pubblici andranno avanti fino a metà marzo, poi il governo dovrà tirarne le conclusioni e uno dei modi potrebbe essere sottoporre a referendum qualcuno dei temi emersi.
«Un referendum? Io sono sempre d’accordo», dice Marine Le Pen,aggiungendo però che «si tratta di una manovra, perché organizzarlo il giorno delle elezioni europee serve a svuotare di importanza il risultato di quest’ultime, che Macron perderà perché le posizioni da lui difese sono ultra-minoritarie nel Paese». In realtà, secondo l’ultimo sondaggio OpinionWay, il Rassemblement National di Marine Le Pen e La République En Marche si trovano testa a testa, con il 22 e il 20% delle intenzioni di voto, mentre la popolarità di Emmanuel Macron sta risalendo dopo essere crollata durante il 2018.
Le manifestazioni dei gilet gialli perdono di intensità ma uno zoccolo duro resiste, sabato erano 58.600 in tutta la Francia. Piuttosto che sciogliere l’Assemblea nazionale e andare a nuove elezioni legislative, o cambiare primo ministro, Macron sembra propendere per il referendum come strumento per chiudere la questione. I precedenti però non sono incoraggianti, in Francia e in Europa: dalle sconfitta con dimissioni di De Gaulle nel 1969 al «no» alla Costituzione europea incassato da Chirac nel 2005, ai casi di David Cameron (Brexit, 2016) e Matteo Renzi (riforma costituzionale, 2016).