Capita di rado che l’Italia sia citata specificamente dal Fondo Monetario internazionale come uno dei fattori principali di rischio per l’economia globale. È successo ieri con l’ultimo World Economic Outlook, presentato alla vigilia del forum di Davos, che per la seconda volta in tre mesi ha rivisto al ribasso le stime, riducendo l’attesa dell’espansione mondiale per quest’anno al 3,5% dal 3,7 di ottobre e quella del 2020 dal 3,7 al 3,6%. E come aveva fatto venerdì Bankitalia, per il nostro Paese il Pil è atteso a un modesto 0,6%, quattro decimali in meno di prima (per il 2020 l’attesa resta allo 0,9%): è la crescita più bassa nell’elenco dei singoli Paesi, quasi quattro volte inferiore all’invariato +2,2% atteso per la Spagna.
Nasce anche da qui la risposta frontale del governo italiano al Fondo, che in un altro report mostra anche che la fiducia dei capi-azienda italiani è ai minimi dal 2012. «Non credo che l’Italia sia un rischio né per l’Ue né globale», ha ribattuto da Bruxelles il ministro dell’Economia Tria, atteso oggi in serata a Davos, aggiungendo che semmai il rischio viene proprio dalle «politiche consigliate dal Fmi». Nel suo attacco Tria punta dritto al «mainstream che prevale al Fmi e alla commissione Ue», secondo il quale «le politiche espansive si attuano quando c’è recessione», mentre quando la congiuntura è positiva anche se debole bisogna mettere da parte cuscinetti da usare in caso di guai peggiori: in questo modo, secondo Tria, «per voler accumulare mezzi per reagire alla crisi si crea la crisi».
Il fatto è che la frenata congiunturale comincia a farsi sentire e vede nell’Italia l’anello debole di un’Europa in difficoltà (passa da +1,9% a +1,6% nelle stime Fmi), guidata dalla frenata della locomotiva Germania (+1,3%, -0,6 punti percentuali rispetto a ottobre), mentre la Francia comincia a soffrire le turbolenze dei gilet gialli (-0,1% a un atteso 1,5%).
La pioggia dei numeri sul rallentamento dell’economia alimenta il dibattito sul rischio di correzioni in corso d’opera.
Rischio respinto da Tria perché «per la commissione Ue conta il deficit strutturale», cioè quello al netto del ciclo, per cui «le manovre si fanno se le entrate e le uscite dovessero cambiare, ma non perché cambia la congiuntura». Il circolo vizioso da evitare è quello di una correzione che finisca per favorire ulteriormente la frenata. Ma ad allontanare l’ipotesi, aggiunge il ministro, c’è anche il fatto che il 2,04% a cui si è legato l’accordo con Bruxelles poggia su un tendenziale già a 0,6%, per cui i numeri di Fmi e Bankitalia non porterebbero a cambi di rotta. La tenuta del 2% dipenderà dall’intensità effettiva e dalle componenti della frenata, perché non manca chi come Oxford Economics già calcola per quest’anno un’accoppiata fra 0,3% di crescita e 2,4% di deficit, con uno scostamento intorno ai 7 miliardi. Sempre da Bruxelles, dove ieri si è riunito l’Eurogruppo, il commissario agli Affari economici Moscovici spiega comunque che «abbiamo ancora preoccupazioni, non solo sul 2019 ma anche sul 2020 e 2021» quando sui conti italiani, oltre alla crescita, pesano le maxi-clausole Iva. L’esame effettivo sarà avviato ad aprile, con il nuovo Def.
Ma al di là dei dati, sono state alcune considerazioni del Fondo a suscitare le aspre reazioni del governo gialloverde. La nuova capo economista dell’Fmi, Gita Gopinath, ha sottolineato la «connessione tra rischi sovrani e finanziari» in Italia, dove i timori hanno già pesato sulla domanda interna. Il rapporto fa notare che le tensioni sui conti hanno contribuito al declino dei mercati azionari nella seconda metà del 2018. Lo spread resta troppo alto: «Un protratto periodo di tassi sovrani elevati metterebbe sotto ulteriore stress le banche italiane, pesando sull’attività economica e peggiorando le dinamiche del debito». Non si manca poi di far osservare che non ci sono stati altri Paesi dell’Eurozona interessati da particolari movimenti dello spread. Indulgenti invece le considerazioni di Gopinath sulla frenata della Germania, attribuita alla domanda esterna e a un ristagno della produzione per i nuovi standard anti-inquinamento nell’automotive.
La ricetta che l’Fmi propone all’Italia ma anche alle altre economie è su due versanti: sarebbero imperative misure «per rafforzare il potenziale di crescita» e «l’inclusività», e quelle per «rafforzare i buffer fiscali e finanziari in un contesto di alti oneri del debito e di un irrigidimento delle condizioni finanziarie». In Europa, comunque, nel 2019 il maggiore fattore di ulteriore rischio, ha detto Gopinath, sta in un’eventuale hard-Brexit, mentre su scala globale i maggiori pericoli guardano alle tensioni commerciali e a una contrazione dell’economia cinese più ampia delle attese.
La managing director dell’Fmi Christine Lagarde ha sottolineato il rischio di ulteriore peggioramento della salute dell’economia globale, pur escludendo una recessione: per contrastare i venti contrari, ha parlato della necessità di un «nuovo multilateralismo», che da oggi sarà oggetto delle discussioni tra i leader a Davos.
A suo parere occorre una più efficace cooperazione internazionale, perché i rischi sono sempre più interconnessi: «Pensiamo a come alti dazi e crescenti incertezze sulle politiche commerciali si traducono in più bassi prezzi degli asset e maggiore volatilità del mercato, il che contribuisce a un irrigidimento delle condizioni finanziarie, che diventa un fattore di rischio in un mondo di alti oneri debitori».