Capita che dica: «Francamente non lo so. Noi non abbiamo cambiato niente, è il mercato che si sta muovendo nella nostra direzione». È vero, in parte. Il dna di Stone Island è rimasto lo stesso degli inizi, quasi quarant’anni fa, il mercato naturalmente no. Quello di Carlo Rivetti è perciò anche, in realtà, un gioco di parole abilmente dosato sul filo dell’understatement. Uno si siede lì, in un angolo del suo show room, e rielenca numeri che lui conosce (ovvio) benissimo. Così comincia con l’aggiungerne uno. Sta chiudendo i conti 2018, almeno sui ricavi un’anteprima la può dare. Siamo pochissimo sotto i 200 milioni: cifra tonda mancata di un soffio che gli permette persino un po’ di autoironico rammarico.
Per esempio. È di Champions che stiamo parlando, di eccellenza assolute.Ma non è detto — al contrario — che un campione junior si confermi tale quando sale tra i senior. Funziona come nello sport: l’impatto con la crescita moltiplica i fattori di selezione, uno alla volta i limiti ( se ci sono) saltano fuori e la corsa si ferma. Se quella di Sportswear, di Davines, delle altre imprese che racconteremo è invece continuata, forse le loro storie possono suggerire qualche «perché».
E, nel caso di Rivetti, qualche diverso approccio al bivio dello sviluppo. In questo senso: anche la sua è una società familiare, anche loro controllano maniacalmente la situazione finanziaria, anche Stone Island basa il suo successo sul binomio ricerca-innovazione. Spesso, però, i Champions sono gelosissimi di quello che hanno costruito, quasi sempre dal niente, e non vedono per quale ragione dovrebbero aprire le porte di casa ai tanti fondi in fila a bussare. Si chiama diffidenza. Paura di ingerenze, di soci ingombranti concentrati sul breve termine, di dividendi da pagare sottraendoli agli utili da reinvestire (quasi tutti, quasi sempre). Rivetti, forse perché le radici imprenditoriali della famiglia risalgono all’800 e ai pionieri del tessile biellese (storia gloriosa finita male, quella del Gft), questi timori non li ha. Un anno e mezzo fa in Sportswear è entrato Temasek, fondo di Singapore. Ha il 30%. A giudicare dai risultati, ha lasciato fare a chi ne capisce.
Basta prendere l’ultima «collezione» — tra virgolette in quanto termine del circuito fashion, dal quale Mr. Stone Island si chiama fuori: «Il mondo corre troppo veloce per ricordarsi di qualcosa che arriverà sul mercato un anno dopo essere stata presentata» — e accostarla all’archivio per capire che è vero, quel che lui rivendicava all’inizio: «Non abbiamo mai cambiato il nostro dna, per preservare l’identità del marchio non ho mai nemmeno “pensato” capi per la donna» (e la donna, in effetti, compra lo stesso). Però è utile, eccome, avere un socio alla Temasek. Diceva un anno fa Rivetti a L’Economia: «Non è il momento di pensare alla Cina, prima dobbiamo digerire gli Usa». Dodici mesi dopo, la «pulizia» americana (supervisionata da Matteo, 25 anni, figlio minore di Carlo e impegnato in azienda come i fratelli Silvio e Camilla) è decisamente a buon punto: Stati Uniti e Canada, cresciuti del 130% nel 2017, hanno messo a segno un altro 80% in più.
Quanto alla Cina, e al resto dell’Asia, forse non bisogna credere troppo alla prudenza delle seguenti parole: «La stiamo annusando». Ma oggi Stone Island ha per compagno di viaggio il più grande partner store del mondo: e con Skp ha da poco aperto due «shop in shop», a Xian e naturalmente a Pechino (vicini di corner: Dior e Louis Vuitton). Dopodiché, ha appena inaugurato il primo «flagship» a Tokyo, presto farà altrettanto a Hong Kong, in parallelo metterà un piede a Shanghai. Forse è un po’ più che «annusare».