Arrivato alla presidenza del Meccanismo di vigilanza unico dopo una sfida giocata sotto traccia, l’italiano Andrea Enria deve affrontare subito una prova che riguarda il proprio Paese d’origine. Non l’ha provocata lui, ma la francese Danièle Nouy che occupava quel ruolo fino a due settimane fa. A sua volta la mossa di Nouy è stata la sua ultima alla vigilanza della Banca centrale europea, in una partita a scacchi che l’ha opposta al Parlamento europeo e in parte alla Commissione Ue.
Solo ripercorrendo le tappe di quel confronto è possibile capire quanto serie per le banche italiane possano essere le conseguenze di ciò che ha rivelato ieri il «Sole 24 Ore»: la Banca centrale europea, in una serie di lettere, sta chiedendo a ogni istituto di svalutare a zero in bilancio tutti i crediti esistenti che si trovano in qualunque forma di default. Ogni banca avrebbe un calendario con tempi diversi, ma in media l’operazione dovrebbe concludersi entro nove anni. Nel settore del credito in Italia, secondo una stima di Andrea Filtri di Mediobanca, significa reperire circa 15 miliardi di capitali per finanziare le perdite.
L’industria bancaria del Paese ha già fatto molto di più in meno tempo. Partita tardi rispetto ad altri Paesi, dal 2015 ha ridotto i crediti difficili nei bilanci di 105 miliardi di euro e nel frattempo, fino al 2017, ha anche dimostrato una (timida) capacità di far crescere il credito. In ogni caso 15 miliardi sono una frazione della cassa che il settore, nel complesso, dovrebbe produrre se l’Italia crescesse nei prossimi nove anni. Sono, peraltro, meno del peso cumulato di tasse che il governo ha appena caricato sulle stesse banche con la legge di bilancio.
Il punto dunque non è capire se la mossa della Bce sia sostenibile per l’Italia. È piuttosto se abbia senso fino in fondo e quanto definitiva sia, visto come ci si è arrivati. È qui che la sfida di Nouy con un altro italiano, il presidente della commissione economica dell’Europarlamento Roberto Gualtieri, ha giocato un ruolo critico. Dall’autunno del 2017 e poi l’anno scorso Nouy sostiene una proposta decisamente intransigente per risanare i bilanci bancari: svalutare obbligatoriamente a zero in otto anni, a tappe forzate, tutti i crediti deteriorati; poco importa per lei che questa forma di cancellazione totale del valore sia senza paragoni negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, perché una quota di un prestito non rimborsato (in media, circa un terzo) viene spesso recuperata.
Gualtieri, un europarlamentare del Pd, non concorda. Sostiene nel 2018 che la Bce deve far rispettare le norme di vigilanza, non può arrogarsi di deciderle perché questo potere spetta al legislatore: la Commissione Ue, l’europarlamento e il Consiglio dei ministri finanziari (Ecofin). Alla fine la posizione di Gualtieri prevale e a luglio scorso si arriva ad un accordo: le banche avranno nove anni per svalutare a zero i crediti, sostenuti da qualche garanzia, che emergeranno in futuro; ma per quelli nati con la crisi non possono esserci obblighi automatici, solo raccomandazioni specifiche ritagliate per ciascuna banca. Le condizioni diventano meno stringenti.
È per questa parziale sconfitta che Nouy, prima di lasciare, in dicembre si prende la rivincita con cui cerca di tornare all’idea di partenza: lettere specifiche, banca per banca, con condizioni simili a quelle che avrebbe voluto dall’inizio. Gli istituti europei sono classificati in «gruppi» secondo la qualità dei bilanci e ogni gruppo riceve richieste simili. Se non è un automatismo vincolante, poco ci manca. Il ritmo delle svalutazioni è fissato progressivamente ogni anno fin dall’inizio, con una rigidità che invece non esiste per i crediti in default futuri. Gualtieri, della commissione economica dell’Europarlamento, non è convinto: «Bisognerebbe definire obiettivi specifici per ciascuna banca e se in certi casi non è così – dice – c’è un errore: lo scopo è indicare delle aspettative, non obiettivi vincolanti e automatici. Questi sarebbero illegittimi».
I toni di Gualtieri sono diversi da quelli di Salvini. Lo è meno la sostanza: in questa partita europea le posizioni di fondo della maggioranza e dell’opposizione italiane, per una volta, sembrano simili. Probabile dunque che queste lettere siano un’altra tappa in un inevitabile percorso di risanamento delle banche italiane, con pressioni costanti dalla Bce ma mai davvero insostenibili. Anche delle lettere di questi giorni, con il tempo, emergerà un’interpretazione un po’ più elastica. Resta però qualcosa di rigido: i prezzi depressi dei titoli di Stato italiani, perché gravano sempre più sui bilanci delle banche che li detengono; è questo che impedisce loro l’accesso al mercato e contribuisce a erodere in modo allarmante il capitale di Monte dei Paschi. La strada più diretta per sostenere gli istituti e riattivare il credito resta dunque quella di sempre: ridurre lo spread.