Non è passato chissà quanto tempo. Davide Bollati andava parlando di responsabilità, etica, sostenibilità ambientale, e lo guardavano non come un giovane, piccolo imprenditore visionario ma come un ingenuo (a dirla in termini educati) che non avrebbe fatto tanta strada, se davvero pensava che responsabilità-etica-sostenibilità potessero andare d’accordo con il business e addirittura esserne un motore. Con lui però, forse, un minimo si trattenevano. Con Paolo Braguzzi, il suo amministratore delegato, no. A Trento, a un Festival dell’Economia, un docente di diritto industriale noto anche oltre gli ambienti accademici lo stroncò, un po’ sprezzante: «Quando le aziende parlano di queste cose lo fanno per farsi belle con i clienti. Attenzione, al fumo dei codici etici: la responsabilità dell’impresa è creare ricchezza».
Sarebbe interessante sapere se a quel professore, e agli altri che la vedevano come lui, sia poi capitato di intercettare lo sviluppo di Davines. La minuscola fabbrica familiare che mamma Silvana e papà Gianni avevano creato a Parma, mettendo su un laboratorio nel classico garage di casa, nelle mani di Davide si era già trasformata da produttore di shampoo & affini per conto terzi in marchio proprio, concentrato sull’unico segmento del mercato «beauty» in cui fosse (e sia) possibile battere le grandi multinazionali che dominano il settore.
Etica e profitti
Sono i primi anni Novanta. Bollati jr. si è appena laureato (è farmacista e cosmetologo), e quel che intanto ha visto qui e all’estero lo convince che la piccola impresa di famiglia può diventare grande a patto di: puntare sull’altissima qualità, dunque sulla ricerca, dunque su una fascia di clientela che non può essere quella del low cost da supermercato. Nell’obiettivo ci sono gli hair stylist , le migliori Spa, i più affermati saloni di bellezza. Non solo in Italia: nel mondo. E con un marchio nel marchio: tutto studiato, prodotto, venduto secondo quei principi di responsabilità-etica-sostenibilità che all’epoca venivano snobbati e oggi sono, si scopre, riconosciuti soft factors del successo imprenditoriale, fattori di crescita non misurabili, ma assolutamente in grado di fare la differenza quando il mercato è una nicchia al top di gamma.
Chi l’ha detto che l’attenzione all’ambiente (per esempio) è per l’azienda solo un costo, e che nemmeno il ritorno d’immagine è sufficiente a ripagare la spesa? O che il rispetto dell’etica sia, per dirla con il professore di cui sopra, «fumo» e nient’altro? La storia di Davines, letta attraverso i suoi bilanci, suggerisce il contrario. L’anno scorso il gruppo era tra i 500 Champions della classifica L’Economia-ItalyPost con 112 milioni di fatturato (dati 2016), una crescita media del 14,5% negli ultimi sei anni, un margine operativo lordo vicino al 12%. Quest’anno, nella hit aggiornata che presenteremo a metà marzo, dai «500» Davines è fuori. Ma semplicemente perché è cresciuta troppo per rientrarci ancora, i conti 2017 l’hanno «promossa» alla categoria superiore: le medie imprese, quelle con un fatturato tra 120 e 500 milioni. Anche a loro dedicheremo un report. E anche in quella fascia dimensionale, tra le aziende che stanno emergendo come le migliori Top 100 della Penisola, compare il gruppo di Bollati: 127,6 milioni di fatturato alzano la media di sviluppo degli ultimi sei anni oltre il 15%, 18,3 milioni di ebitda fanno salire la relativa percentuale sui ricavi sopra il 14%. E il trend continuerà nel 2018, che a Parma stanno chiudendo in queste settimane: l’utile netto di 9,4 milioni prevedibilmente scenderà, per via dei 45 milioni investiti nella nuova sede, ma le vendite continueranno a crescere al ritmo di sempre. Sempre, anche, a fortissima impronta estera: 75% di export, con il Nord America primo mercato persino oltre l’Italia (31,7% contro 25%).
Modelli virtuosi
A questo punto. È vero, non è possibile misurare quanto il «pacchetto» etica-sostenibilità abbia contato nella crescita passata, e quanto conterà nel raggiungimento di obiettivi che fissano un raddoppio secco nel giro di cinque anni, sette al massimo. Ma è vero anche quel che dice Bollati, insieme a Brunello Cucinelli il più convinto sostenitore dell’approccio umanistico al business: «Noi non vogliamo perdere il nostro tempo lavorativo costruendo, giorno dopo giorno, un’azienda incapace di generare un impatto positivo nel nostro mondo. Il nostro sviluppo però dimostra che condurre un’impresa con profitto e insieme con effetti positivi su persone, società e ambiente non è solo possibile: è un modello virtuoso che alimenta il successo». Tanto che appartiene ormai al paradigma di una nuova razza di imprenditori, quelli emersi come vincenti — anche perché reinvestono tutti gli utili, o quasi — dallo scontro con i mercati in questo complicato primo ventennio del Duemila. Dopodiché, se qualcuno nutrisse ancora dubbi, può fare una cosa semplicissima. Visitare il Davines Village, in un qualsiasi giorni di lavoro. È un’open factory: le porte sono aperte. Anche per la mensa firmata Vittorio Cerea.
*L’Economia, 14 gennaio 2019