«Se non è diventato un partito quando erano in tanti e tutti del centrosinistra, quando a trainarlo era un blocco guidato dalla Roma guidata da Francesco Rutelli prima e Walter Veltroni poi, perché dovrebbe diventarlo adesso, senza Roma e Torino (governate dai Cinque Stelle)? Se i sindaci uniti hanno perso nel 2008 la guerra contro l’abolizione della tassa sulla prima casa, perché dovrebbero vincere questa sfida contro il decreto sicurezza, ora che sono pochi e sfilacciati?».
La scommessa di Matteo Salvini è tutta in questo ragionamento, svolto negli ultimi giorni a voce alta tra i suoi fedelissimi. Un calcolo — giusto o sbagliato, lo stabilirà la cronaca delle prossime settimane — che rimanda alla «scarsa tenuta» dell’unico partito che nell’ultimo quarto di secolo è stato evocato, temuto, disegnato, in certi casi addirittura sognato senza aver mai, alla fine, visto la luce.
I tempi in cui centinaia di fasce tricolori tutte insieme sfilavano, protestavano, trattavano col governo centrale, animavano le manifestazioni del 25 aprile, promuovevano referendum e tanto altro ancora sembravano lontanissimi eppure ora paiono più vicini. Rutelli a Roma, Bassolino a Napoli, Castellani a Torino, Bianco a Catania, Cacciari a Venezia: tutti così diversi ma tutti incredibilmente indistinguibili, quando facevano fronte comune. «Un accampamento di cacicchi», lo definì Massimo D’Alema nel 1997 evocando i capi tribù di alcune zone dell’America Latina.
Un partito fantasma, nato grazie alla legge del 1993 che ha iniziato a prevedere l’elezione diretta dei primi cittadini, elevati come d’incanto dal rango di Carneade a quello di celebrità. Tanto per capirci, prima di quella data Pietro Giubilo, sindaco diccì della Capitale tra il 1988 e il 1989, dopo aver abbandonato il Campidoglio era finito a fare l’usciere alla Regione Lazio. Dopo il 1993, tolti Ignazio Marino e Virginia Raggi, tutti i primi cittadini della Capitale hanno come minimo fondato un partito. Piccolo o grande che fosse.
E adesso? C’è spazio per il «partito dei sindaci»? La scommessa di Salvini è tutta qua. La sua risposta è «no», questo spazio non c’è. D’altronde, apparentemente, il fronte delle fasce tricolori che fa disobbedienza civile contro il decreto sicurezza agisce secondo la tattica opposta a quella — si dice da sempre, vincente — di marciare divisi per colpire uniti. Marciano uniti contro il ministro dell’Interno, sì. Ma potrebbero finire per colpire da divisi.
Che siano divisi, lo dice la cronaca, prima ancora che la storia. Leoluca Orlando, nell’ultima tornata elettorale che l’ha confermato sindaco di Palermo, non ha voluto le insegne del Pd. De Magistris, del Pd, è addirittura un nemico giurato. E poi ci sono i piddì ascrivibili al renzismo della primissima ora ma critici (Giorgio Gori, Bergamo), della prima ora ma silenziosamente pentiti (Dario Nardella, Firenze), della seconda ora ma ancora convinti (Antonio Decaro, Bari). E poi Beppe Sala (Milano) che fa storia a sé, Filippo Nogarin (Livorno) che è addirittura dei Cinque Stelle e c’è l’assenza di quelle due caselle — Roma e Torino — guidate da sindache pentastellate che si sono chiamate fuori dalla lotta.
Che da tutto questo venga fuori un «partito», o un qualcosa che possa somigliargli, è tutto da verificare. Per Salvini è un «no», per Di Maio «sono messi male», per Conte chissà, comunque meglio incontrarli.
Già, incontrarli. Tutti i tentativi di fondarlo, questo partito dei sindaci, si sono sempre arenati di fronte all’incontro col potere centrale di Roma. Il gonfalone del singolo, alla fine, ha sempre prevalso sulla fascia tricolore di tutti. Chissà se sarà così anche stavolta.