Dobbiamo riconoscere al premier Giuseppe Conte insospettate qualità di mediatore tra le due anime della maggioranza. E anche una discreta conoscenza del marketing politico. Conte è riuscito a far digerire a Salvini e a Di Maio una spettacolare marcia indietro sulla legge di Bilancio. I mesi persi in inutili sceneggiate con la Commissione europea pesano già — e peseranno — sui conti delle famiglie e delle imprese. Tagli sgraditi, tasse nascoste. L’effetto della manovra sulla crescita è del tutto incerto. Se non avverrà, si darà la colpa in campagna elettorale ai vincoli europei. Il copione è già scritto. Gli attori, nel frattempo, non disdegnano di rivestire diversi e contraddittori ruoli. La fantasia non manca, la disinvoltura pure. In attesa del reddito di cittadinanza, si tolgono soldi al volontariato che è la forma più solidale di cittadinanza. I pensionati con più di 1.522 euro al mese sanno che i loro assegni non verranno più rivalutati come un tempo. E si interrogano sul significato di «pensione di cittadinanza». Alcune migliaia di italiani (300 mila circa) usufruiranno di quota cento. Gli altri, alcuni milioni, si accingono a fare piccoli e grandi sacrifici. Va così. È la manovra del popolo.
Ma c’è un’altra e più delicata questione che potrebbe ulteriormente dividere la maggioranza ed è quella dell’autonomia differenziata richiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.
D alle prime due, Lombardia e Veneto, a guida leghista, con due referendum dal valore esclusivamente consultivo, svoltisi nell’autunno del 2017. L’articolo 116 della Costituzione, dopo la riforma del Titolo V del 2001, recita che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» possono essere attribuite dallo Stato alle Regioni a statuto ordinario. Lombardia e Veneto hanno chiesto la «devoluzione» su 23 materie; l’Emilia-Romagna su 15. La Lega non può venir meno a una sua battaglia storica e identitaria. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, ha minacciato la crisi se gli alleati Cinque Stelle dovessero opporsi. Il vicepremier Matteo Salvini è sicuro che la legge si farà. Con un Paese «più unito nella diversità». Anche perché altre Regioni, come Piemonte, Toscana, Liguria e Marche vorrebbero più autonomia. Il premier si è affrettato a dire che sarà «garante della coesione nazionale» come se già ne temesse i contraccolpi. Del resto far convivere l’impronta sovranista della coalizione con il sussulto nostalgico federalista, ammesso che ci sia ancora, di una sua componente equivale alla quadratura del cerchio. Un esercizio acrobatico. Sotto tutti i punti di vista. Per ora è stata discussa solo una bozza e promessa una firma definitiva con le Regioni interessate entro il 15 febbraio.
La ministra agli Affari regionali Erika Stefani, veneta e autonomista, ha parlato di un «percorso nuovo» per il trasferimento delle competenze alle Regioni. I presidenti di Lombardia e Veneto, Attilio Fontana e Luca Zaia, sono però preoccupati. Al di là delle espressioni compiaciute per lo «storico passo», sanno che le maggiori resistenze provengono dai ministeri a guida grillina. E non solo. La ministra della Salute Giulia Grillo avrebbe dato risposte, ritenute irridenti dalla Stefani, alla richiesta di collaborare alla scrittura di un testo di legge. Anche il titolare dell’Istruzione Marco Bussetti avrebbe fatto molte resistenze. Il «percorso nuovo» si annuncia più accidentato.
Il nodo, tanto per cambiare, è quello delle risorse. In un primo momento verrebbero trasferiti i fondi statali necessari per assolvere ai vari servizi decentrati (scuola, ambiente, lavoro, salute) a costi storici. La quota trasferibile è di 21,5 dei 71,5 miliardi che lo Stato impegna per le tre Regioni. Se queste spendono di meno, impiegheranno autonomamente la differenza. Gestendo direttamente, potrebbero realizzare efficienze, risparmi e offrire servizi migliori. La definizione dei costi standard e dei livelli essenziali di prestazione verrebbe realizzata in un quinquennio. Un rodaggio in attesa di premiare i più virtuosi che, restando sotto la media dei costi standard, riceverebbero dallo Stato più di quanto spendono. Gli altri, penalizzati, dovrebbero essere indotti a migliorare le gestioni.
L’intesa firmata il 28 febbraio scorso da Roberto Maroni, Luca Zaia e Stefano Bonaccini con il governo allora presieduto da Paolo Gentiloni — il sottosegretario era Gianclaudio Bressa — prevedeva anche la compartecipazione al gettito dei tributi erariali, di cui non si parla più. Il paradosso politico è quello di due governatori leghisti, Fontana e Zaia, posti nella scomoda condizione di sperare che un governo amico non mandi all’aria un’intesa raggiunta con l’esecutivo guidato dall’odiato Pd. Nel suo libro Il rito ambrosiano (Rizzoli), Maroni teme che si voglia mantenere lo status quo. «Salvini all’epoca del referendum sull’autonomia — scrive l’ex governatore lombardo Maroni — non si dannò l’anima. Anzi qualcuno sostiene (ma io non gli credo) che abbia fatto il tifo per il no». Il disegno di legge, se mai sarà presentato, dovrà avere l’approvazione della maggioranza assoluta delle Camere. Ai Cinque Stelle non piace, meglio tirarla in lungo. E poi Salvini oggi è votato anche al Centro e al Sud. C’era una volta la Lega federalista. Chi ha votato al referendum sull’autonomia di Lombardia e Veneto avverte già il sapore amaro di una presa in giro.