A prima vista suona come l’ennesimo sgarbo tra alleati, un’altra fuga in avanti – dopo l’incontro con gli imprenditori – con cui Matteo Salvini costringe Luigi Di Maio a inseguire. A ben vedere, però, potrebbe essere un assist al collega in difficoltà, un modo per guadagnare tempo senza mettere a rischio la sopravvivenza del governo.
Dice Salvini che decidere i destini della Torino-Lione attraverso un referendum popolare «potrebbe essere una strada se dall’analisi sui costi e benefici non dovessero arrivare risposte chiare». Lo spiega poco dopo aver incontrato gli imprenditori lombardi, a Milano, seconda tappa del percorso di riavvicinamento al mondo del fare che il leader della Lega ha avviato non appena fiutata la delusione crescente delle imprese, in particolare al Nord.
La sortita di Salvini stana l’alleato su un tema a lui molto caro, almeno nelle intenzioni, come la partecipazione e la democrazia diretta, tanto da aver voluto un ministero ad hoc affidato a Riccardo Fraccaro, fedelissimo di Di Maio. Non a caso, il capo politico del Movimento 5 Stelle apre subito alla consultazione: «Devono essere i cittadini di una comunità a chiederlo, così prevede la legge. Ci sono state manifestazioni Sì Tav e No Tav: se le comunità chiedono un referendum chi siamo noi per opporci?».
Dietro le schermaglie tra alleati, c’è un dato che potrebbe fare comodo a entrambi. Il referendum avrebbe l’effetto di rinviare, almeno nel caso della Torino-Lione, il momento della resa dei conti dentro il governo. Bisognerebbe attendere l’esito dell’analisi tecnica, condividerla con la Francia e nel frattempo circoscrivere il campo di una consultazione popolare che sarebbe la prima nella storia italiana su una grande opera: voterebbero Torino e i comuni interessati, tutta l’area metropolitana o l’intero Piemonte? Ma soprattutto, chiedere al territorio di esprimersi allontanerebbe dal governo ogni responsabilità: a scegliere sarebbero i cittadini, non l’esecutivo che farebbe semplicemente da notaio.
Ecco perché il referendum sulla Tav potrebbe mettere d’accordo Lega e Cinquestelle. Non a caso il primo a sfilarsi dal coro è anche uno dei primi – dopo i Radicali – ad aver evocato la consultazione popolare. «Non vorrei che fosse un alibi da parte del governo per non assumersi la responsabilità di decidere, scaricando sui tecnici la scelta e allungando i tempi», dice il presidente del Piemonte Sergio Chiamparino.
Chiamparino vorrebbe un referendum in Piemonte, se il verdetto degli esperti incaricati da Toninelli sarà negativo. Lo propone forte del voto con cui ieri la maggioranza dei 316 comuni della provincia di Torino (169 sindaci su 193 presenti) ha approvato un documento a favore dell’opera relegando in minoranza Chiara Appendino, sindaca di Torino e della Città metropolitana.
Chiamparino però non si fida: prima il governo si esprima, poi al limite votino i cittadini.
Salvini sembra scacciare le letture maliziose: «L’unica cosa che non può succedere è che si vada avanti ancora per settimane o mesi a discutere. L’importante è avere dei sì o dei no. Io tifo per il sì. Se i tecnici ci dicessero no, o forse, si possono ascoltare i cittadini». Eppure è un dato di fatto: una consultazione popolare sposterebbe ancora il momento della decisione, forse a dopo l’estate. La rotta tracciata dal ministro Toninelli non ha scadenze brevi: analisi preliminare a fine anno, quindi condivisione con Francia ed Europa, infine valutazione da parte di esperi internazionali. Una sequenza che mette i brividi a Chiara Appendino, sempre più stretta tra il popolo No Tav e i Cinquestelle che spingono contro la Tav e gli altri sindaci del Torinese, le forze produttive e pezzi di società civile a favore dell’opera. Ancora ieri la sindaca di Torino ha fatto appello al “suo” governo: «Spero che la decisione arrivi in tempi brevi».
Il referendum potrebbe essere una buona via d’uscita anche per lei.