Quando in settembre il governo pubblicò i suoi piani finanziari fino al 2021, il dato sul deficit catturò talmente l’attenzione che due dettagli rimasero un po’ in ombra. Ora entrambi potrebbero levare il sonno a chi deve rivedere il Bilancio per provare a renderlo più compatibile con le regole europee. Soprattutto, su di essi stanno maturando letture diverse nel governo e un’attenzione poco rassicurante nel mercato proprio ora che le tensioni sui titoli di Stato si sono attenuate.
La prima di quelle stime riguarda il peggioramento del deficit cosiddetto «strutturale»: si tratta di una sorta di zoccolo duro del saldo di Bilancio, una volta scomputati gli effetti temporanei della fase più o meno buona dell’economia e le misure che incidono per un anno solo. Per quanto frutto di stime discutibili, questo dato conta perché è su di esso che la Commissione Ue giudica se un Bilancio rispetta le regole. Quello italiano, per ammissione della nota del governo, non lo fa: anziché migliorare un po’, come dovrebbe, il deficit «strutturale» nel 2019 peggiora dello 0,8% del prodotto lordo e cioè di 14 miliardi (circa l’equivalente delle spese designate per pensioni e reddito di cittadinanza). Se dunque il governo ora dovesse almeno lasciare immutato il deficit strutturale secondo la sua stessa stima — per evitare una procedura europea — in teoria dovrebbe azzerare le misure decisive del Bilancio.
È su questo punto che stanno emergendo letture diverse sia a Roma che nell’area euro, secondo varie persone coinvolte nel confronto. In Italia prendono la forma di divergenze fra il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, e altri esponenti dell’esecutivo su cosa occorra fare se si vuole evitare (o attutire) l’avvio di una procedura di Bruxelles. Nell’area euro la linea di faglia è fra i meno intransigenti — su tutti, il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker — e le capitali del Nord, inclusi i commissari europei da loro espressi, che chiedono un’adesione più stretta alle regole. In mezzo si trova il governo tedesco, che a Tria a Bruxelles ha dato qualche segnale di disponibilità ma in Germania ha alle spalle un’opinione pubblica e una classe politica per niente disposte a chiudere un occhio.
Il cuore della discussione è l’entità della correzione «strutturale» che serve. Se si crede alle stime dell’Italia, in teoria sarebbe appunto di almeno 14 miliardi (di più invece secondo le stime della Commissione, che vede un peggioramento anche maggiore). Invece Juncker e i meno intransigenti sono disposti ad accettare una concessione minore, otto miliardi o poco più, dato che l’economia italiana è in frenata e dunque la stima del deficit strutturale cambia. Qui però pesano le diverse letture di Tria rispetto al premier Giuseppe Conte e ai vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Il ministro pensa che per evitare la procedura sia essenziale offrire una riduzione reale e permanente di almeno metà dei piani di spesa per reddito di cittadinanza e pensioni. Altri sperano invece che le leggi europee si adattino alla realtà politica di Roma. Per questo Tria oggi considera forse più realistico attutire l’aggressività e il ritmo iniziale della procedura, ma non evitarla.
Qui però entra in gioco l’altro dato passato sotto silenzio in settembre: l’inflazione prevista nel 2019, che nelle stime del governo era alta come e più della crescita. Ciò doveva aiutare a far scendere il debito pubblico in proporzione alle dimensioni dell’economia. Il problema è però che tanto l’inflazione che la crescita l’anno prossimo promettono di essere bassissime, quasi al punto da far salire (di nuovo) il debito. Ciò preoccupa i mercati anche più della procedura Ue.