Per anni la generazione nata negli anni ’70 e ’80 ha chiesto a gran voce un ricambio delle classi dirigenti, illudendosi che questo rinnovamento avrebbe contribuito a migliorare l’Italia. Oggi che il ricambio generazionale è arrivato, il risultato è disastroso. I nuovi politici mentono più frequentemente di quelli vecchi, con un’arroganza e un’ignoranza senza precedenti. I conflitti d’interesse permangono, anzi si moltiplicano. Di apparentemente nuovo c’è l’uso ossessivo dei social media, ma si tratta solo di una rielaborazione in chiave moderna della tradizionale propaganda.
La verità è che noi trentenni e quarantenni avevamo confuso il ricambio generazionale con la meritocrazia. Pensavamo che una volta avvenuta la ‘ rottamazione’, la selezione della classe dirigente avrebbe seguito criteri migliori che in passato. Bastava far saltare il tappo che aveva incastrato i nostri padri. Da sotto sarebbe sgorgato a fiotti lo champagne.
Invece abbiamo dato all’Italia un governo che ricorda molti consigli d’istituto delle scuole superiori della nostra adolescenza. Alle elezioni per i rappresentanti degli studenti vincevano spesso quelli che promettevano di occupare la scuola a novembre. L’occupazione durava un mese, poi arrivavano inevitabilmente gli sgomberi e gli esami di fine quadrimestre. A quel punto bisognava tornare a fare i conti con la realtà.
Si obietterà che questo processo non è così diverso da quello che ha accompagnato l’Italia negli ultimi cinquant’anni. Appunto, mi viene da dire. C’eravamo illusi di essere diversi, migliori, solo perché ingiustamente repressi e frustrati dalle scelte dei nostri genitori. Invece ci ritroviamo anche noi a ripetere la parole di Giorgio Gaber: la mia generazione ha perso. E abbiamo appena iniziato a giocare.
Come si spiega questo fallimento? I fattori sono due. Il primo è che i meccanismi di selezione della classe dirigente italiana sono praticamente assenti, se non addirittura dannosi. La burocrazia statale, le aziende e i partiti sono troppo spesso incapaci di creare con pazienza i leader di domani. Si preferisce cercare di mantenere il potere tra chi lo ha già, invece di favorire un ricambio graduale, che aiuti i più giovani a formarsi. Così facendo, la classe dirigente futura sarà peggiore di quella passata. E la rabbia degli esclusi continuerà a incanalarsi verso forze di protesta, come il Movimento 5 Stelle, che sanno accogliere lo scontento dei più giovani, ma sono incapaci di offrire al Paese una leadership o un programma di governo minimamente credibili.
L’altro problema è quello della competizione globale per il talento. Negli ultimi quindici anni l’Italia ha subito un enorme impoverimento del suo capitale umano, che ha inevitabilmente delle conseguenze per la gestione della cosa pubblica. Il sistema di selezione italiano è entrato in concorrenza con quello di altre economie come la Gran Bretagna, e ha sonoramente perso. Tanti sono andati via, preferendo la partenza alla protesta. Oggi che l’Italia prova a ingranare una nuova marcia, l’assenza di questo motore si fa sentire. È possibile ipotizzare un futuro migliore? Francamente è difficile farlo. Il Partito Democratico ha fermato a metà il suo processo di rinnovamento, e riparte oggi da poche idee, vecchie e confuse. Forza Italia rimane vittima del suo peccato originale: essere un partito personale. Le altre forze politiche sono troppo piccole e fragili per far sperare in uno scatto in avanti a breve.
Siamo un Paese destinato a rannicchiarsi su se stesso, sotto il peso dei debiti passati e futuri e di una popolazione sempre più anziana. I giovani asseconderanno questo declino, o saranno comunque troppo pochi per fermarlo. L’unica rivoluzione che sappiamo fare in Italia è la conservazione.