Venerdì sera a Verona, nella sede della Camera di Commercio, ieri a pranzo, in un ristorante di Treviso, Luigi di Maio ha ascoltato, ha difeso, ha spiegato, ha promesso. Ha ascoltato imprenditori, artigiani e commercianti — ciò che non è accaduto spesso nei suoi primi sei mesi al governo — ha difeso l’impianto della manovra gialloverde, ha spiegato le ragioni della forzatura sul deficit dei conti pubblici, ha promesso qualche ritocco agli incentivi del piano Industria 4.0, in gran parte cancellati nella prima stesura della Legge di stabilità. Ma l’impressione — anche dei presenti — è che il titolare dello Sviluppo economico si sia precipitato a chiudere la stalla quando i buoi hanno da tempo preso il largo. Le distanze tra il mondo produttivo del Nord, cuore della protesta contro il decreto dignità, il reddito di cittadinanza, lo stop alle infrastrutture, la drammatica miseria di investimenti pubblici, e il “governo del cambiamento” ampia era e ampia rimane, anche dopo il tour veneto di Di Maio. Proprio alla vigilia del grande appuntamento di domani a Torino, dove Confindustria ha convocato non soltanto i suoi vertici nazionali e tutti i rappresentanti delle organizzazioni territoriali, ma anche le associazioni delle piccole imprese, i costruttori dell’Ance, gli artigiani di Cna e Confartigianato, i commercianti, gli agricoltori, le cooperative. Qualche migliaio di esponenti del ceto produttivo, parecchie decine di miliardi di Pil tutti in una grande sala, anzi forse due perché la prima non basterà. L’occasione è il “Sì Tav” — da cui la scelta di Torino — ma non è difficile immaginare che il pomeriggio torinese si trasformerà nella grande protesta delle imprese contro la politica economica di M5S e Lega.
Più il primo della seconda, per diverse ragioni: i provvedimenti (o gli orientamenti) invisi alle imprese sono innanzitutto il reddito di cittadinanza e lo stop alle nuove infrastrutture; l’incompetenza di alcuni ministri e sottosegretari grillini e l’approssimazione con cui maneggiano leggi e decreti che spostano miliardi di euro pubblici, per giunta in deficit; quel sentimento a torto o a ragione percepito come anti-imprese, malcelato dalla stessa intitolazione (” Decreto dignità”) del provvedimento sul lavoro e da parecchie esternazioni pubbliche dopo il crollo del ponte Morandi a Genova; e infine il credito ancora aperto nei confronti della Lega e di Matteo Salvini, nella speranza, forse l’illusione, che, all’indomani della possibile rottura con i Cinque Stelle, il Carroccio che per anni si è autoproclamato paladino delle imprese del Nord torni nei binari di un centrodestra più ortodosso.
«Pur avendo chiarito alcuni punti e su questi ottenuto aperture, permangono le criticità di fondo sull’impostazione della manovra, le stesse sollevate dalle iniziative nazionali programmate nei prossimi giorni » , hanno messo per iscritto imprenditori, commercianti e artigiani dopo l’incontro di ieri a Treviso con Di Maio. L’opportunità, così rara, di sedersi allo stesso tavolo con il ministro dello Sviluppo economico è stata apprezzata, ma ora servono fatti. Ed è improbabile, a meno di imprevedibili stravolgimenti della manovra, che gli imprenditori trovino nella legge di stabilità le risposte «immediate» che cercano. Un piano di sviluppo industriale «con una visione a 5-10 anni»: mai visto neppure ai tempi di governi più sensibili allo sviluppo delle imprese. Una netta riduzione del cuneo fiscale: ipotesi mai neppure presa in considerazione dai gialloverdi. Il taglio dei tempi e dei costi della burocrazia: difficile da prevedere, considerati i pasticci dei primi sei mesi. Le infrastrutture: tutto è appeso a una analisi costi- benefici che pare eterna, o secretata. Il sostegno ai processi di internazionalizzazione per accrescere gli scambi commerciali: voce per la quale, in caso di missioni all’estero, bisognerebbe imparare a distinguere i cognomi dai nomi, perlomeno dei capi di Stato delle grandi potenze mondiali.