Il tempo è poco, il lavoro da fare no. Questo probabilmente non è un «momento Tsipras», dal nome del premier greco che in una notte del 2015 decise di invertire di centottanta gradi la rotta del suo Paese dopo sei mesi di sfida populista all’Europa. Eppure anche Luigi Di Maio e soprattutto Matteo Salvini, i vicepremier e capi politici del governo, dopo sei mesi di tensioni con Bruxelles hanno iniziato a dare i primi segnali di ciò che era possibile leggere in trasparenza anche prima: i due non sono impermeabili alle pressioni esterne, né quelle politiche del resto d’Europa né quelle finanziarie dei mercati internazionali.
Aver lasciato emergere questa realtà è di per sé un cambiamento per Salvini, dopo mesi di strane citazioni («me ne frego», «noi tiriamo diritto») o ironie all’indirizzo della Commissione Ue («aspettiamo la lettera di Babbo Natale»). È un cambio qualitativo al quale il mercato ha risposto con un recupero che dimostra il valore dei toni e del linguaggio dei politici per l’intera economia, ma ora nasconde alcune trappole. La prima è di vedere nell’allentarsi delle tensioni sul debito più di quanto sia successo nella realtà: il rimbalzo bruciante di ieri si spiega in buona parte con la corsa di alcuni investitori a chiudere le posizioni ribassiste aperte dopo il flop del collocamento del Btp Italia la scorsa settimana. Non c’è ancora niente di solido e strutturale nel calo dei rendimenti di ieri. Ma la seconda trappola che presentano per il governo è di alimentare l’idea che sia possibile navigare a lungo gli scogli di una procedura europea sui conti lasciando filtrare una dichiarazione conciliante ogni tanto.
Gli obiettivi
Per Bruxelles l’Italia dovrebbe ricavare
7-8 miliardi da risparmi o nuove tasse
Vista da Bruxelles, una strategia del genere sarebbe inutile. Nella Commissione europea ancora non si vede nessuna svolta concreta e ormai il tempo rimasto per prevenire l’innesco di una procedura correttiva sulla finanza pubblica dell’Italia è sempre meno. Non sarebbe una svolta, per nessuno degli interlocutori dell’Italia, una limatura di tre o quattro miliardi (circa lo 0,2% del prodotto lordo) degli obiettivi di deficit solo grazie al rinvio di qualche mese — a aprile o a maggio — dell’inizio dei programmi di spesa sul reddito di cittadinanza e sulle pensioni. Uno slittamento nel primo anno di questi programmi non ne cambierebbe il peso finanziario a regime, né risolverebbe il problema delle coperture dal 2020 basate su aumenti dell’Iva ai quali nessuno crede.
Corsa contro il tempo
All’Italia restano una ventina di giorni per disinnescare la procedura di infrazione
A qualcosa di più simile a una svolta, per la Commissione Ue, ci si avvicinerebbe se il governo desse chiaramente ai suoi negoziatori il mandato che finora non ha mai concesso: quello di discutere e rivedere a Bruxelles la struttura del reddito di cittadinanza e delle pensioni dai 62 anni. In Europa c’è molta più comprensione per lo spirito della prima misura — se modulata per non renderla un sussidio passivo — che per la seconda. Ma con un’economia italiana in evidente frenata la Commissione probabilmente accetterebbe un obiettivo di deficit nel 2019 stabile rispetto all’1,8% o 1,9% di quest’anno; forse anche leggerissimamente superiore.
Significa che il governo deve trovare almeno sette o otto miliardi di risparmi o nuove tasse in più, anche riducendo i piani di spesa sui quali Lega e M5S puntano di fronte agli elettori. In sostanza, si tratterebbe di rivedere la struttura della legge di bilancio e di farlo discutendone con Bruxelles. Ormai restano una ventina di giorni per disinnescare la procedura per deficit eccessivo che di fatto è già partita. Dopo, la Commissione Ue avrà già avuto l’avallo di tutti gli altri governi e a quel punto sarà tardi per uscire da una trappola in cui il governo si è cacciato da solo.