C’è la disfida in piazza sugli inceneritori, c’è il rischio in Parlamento dei voti a scrutinio segreto sul ddl Anticorruzione, c’è la tensione in Consiglio dei ministri sul varo delle Autonomie regionali.
Ma la vera emergenza di governo resta il nodo dei conti pubblici, la trattativa con l’Europa che non decolla, il tempo che corre, lo spread che sale, il timore che dietro il braccio di ferro sulla manovra nazionale si celino manovre internazionali. I fantasmi a cui ieri Salvini ha dato pubblica forma sono il resoconto di riflessioni svolte con quei rappresentanti dell’esecutivo che conoscono Bruxelles e le strategie dei Paesi alleati. Da giorni ai vicepremier vengono spiegati i pericoli a cui si potrebbe andare incontro: «La Francia, per esempio, attende di vederci in difficoltà per mettere le mani sui gioielli di famiglia italiani a prezzi di saldo». Ecco decrittata la battuta del capo leghista, secondo cui «la battaglia è più grande di quel che si pensa: il problema non sono Juncker o Moscovici».
Ma a Juncker e Moscovici, dunque alla Commissione, «serve dare qualcosa, serve inserire — come ha spiegato Giorgetti nelle riunioni riservate — elementi reali di novità» nella manovra, e accompagnare la mediazione «abbassando i toni». Accantonata l’idea di sfidare l’Unione («peggio tardi che mai», imprecava ieri un autorevole ministro), c’è da prendere atto che il compromesso può realizzarsi solo con alcune concessioni. Anche perché non sembrano esserci dei margini per una limitazione del danno: la procedura sul deficit pare un’opzione impraticabile, visto che l’Italia formalmente non sforerà il 3%. Resta il «cartellino rosso» sul debito, che sarebbe pesante.
Ecco lo stato dell’arte nel governo, dove prosegue il derby tra Di Maio e Salvini. E dire che su questo punto Giorgetti aveva consigliato ai due una tregua. Il sottosegretario alla Presidenza, per svelenire il clima, l’aveva fatto prendendo a prestito l’avvertenza che sta sui pacchetti di sigarette: «La competizione nuoce gravemente alla salute. Del governo». Niente da fare, Salvini e Di Maio continuano a fumare, intenti a marcare i propri territori.
Era chiaro al leader leghista che evocare gli inceneritori sarebbe stato considerato dal capo grillino un atto ostile. Ed è chiaro che si trattava di un diversivo. Il motivo va ricercato (anche) nel braccio di ferro parlamentare, dove M5S mira a costruire la «remuntada» sulla Lega portando a casa il ddl Anticorruzione. Sul provvedimento il Carroccio è in sofferenza, lo si è notato alla Camera nei lavori in commissione, dov’è parso il partito del «vorrei ma non posso»: avrebbe voluto modificare la prescrizione e non c’è riuscito; puntava a cambiare la norma sul peculato e ha dovuto desistere; aveva ottenuto un compromesso sul finanziamento ai partiti ed è saltato.
I voti segreti in Aula potrebbero rovesciare il verdetto ma Salvini deve difendere il decreto sicurezza, che va ancora convertito in legge: perciò non può forzare la mano. Così ieri — accantonati gli inceneritori — ha messo in campo il tema delle Autonomie regionali, schierando la batteria dei suoi governatori. La riforma, secondo il vicepremier, andrebbe approvata «entro l’autunno» dal Consiglio dei ministri. Un’altra prova di forza con M5S, se è vero che da mesi il ministro leghista Stefani incontra la resistenza passiva dei colleghi grillini, che non le inviano i loro «pareri» perché ostili al disegno.
Altro che «contratto» di governo. Oltre la spartizione dei posti di potere, «Salvini e Di Maio — per dirla con Bersani — concorderanno solo la data del voto anticipato, perché dopo questa manovra non avranno la voglia e la forza di fare la successiva». È vero, c’è la variabile del Colle, c’è l’ipotesi — accreditata dal Carroccio — che Mattarella non consenta il ritorno alle urne e si apra la prospettiva di un gabinetto a guida Salvini coi voti di Berlusconi, Meloni e dei transfughi grillini. Sembra uno scenario fatto apposta per tener buono il Cavaliere, che intanto serve a Salvini per far passare in Parlamento la nomina dei nuovi vertici Istat. «Nel governo la convivenza è difficile», ammette Di Maio, mentre l’altro vice premier liscia il pelo addirittura a Tajani: «Abbiamo governato insieme tanti anni, spero torneremo a farlo». Stanno per tirar giù il sipario.