Prima lo hanno chiesto gli analisti di Fitch, l’agenzia di rating, che erano a Roma in ottobre. Poi anche gli uomini del Fondo monetario internazionale, nei giorni scorsi in città. La domanda era sempre la stessa: se la legge di Bilancio per il 2019 non è coerente con i principi della Costituzione, può essere portata davanti alla Corte costituzionale in tempi brevi?
Gli osservatori internazionali per ora non hanno avuto risposta. La Costituzione indica per l’Italia l’obiettivo del pareggio di bilancio, in linea con in quadro europeo, e prevede che ogni misura che aumenti il disavanzo venga compensata in qualche modo. La legge di Bilancio invece contiene 22 miliardi di nuova spesa, in gran parte corrente, tutta in deficit. La Corte dei conti potrebbe eccepire sulla costituzionalità quando stilerà il rendiconto nel giugno 2020, ma nei palazzi di Roma c’è chi si chiede se non sia il caso di rivolgersi alla Consulta molto prima.
Probabile che alla fine niente di tutto questo succeda, eppure quelle domande di Fitch e soprattutto del Fmi rivelano lo scetticismo che si sta accumulando sull’Italia. Il mercato dei titoli di Stato ieri è stato percorso da nuovi tremori e rischia di esserlo ben di più dall’ultima settimana di novembre in poi. Allora, quando il Tesoro avrà finito di collocare alle famiglie il suo nuovo Btp Italia, gli investitori inizieranno a concentrarsi sulla sfida più pericolosa che attende il governo: nel 2019 deve rifinanziarsi per oltre 250 miliardi in titoli di debito a medio-lungo termine e né in Italia né nel mondo si vedono per ora compratori disposti ad aumentare la propria esposizione sul Tesoro; semmai il contrario.
È su questo sfondo che la Commissione europea si prepara a mettere Roma sotto pressione, anche perché essa stessa lo è. Non appena pervenuto a Bruxelles il rifiuto del governo M5S-Lega a cambiare un bilancio in violazione di ogni regola, ieri la protesta da altre capitali è partita in poche ore. I ministri delle Finanze dell’Aia e di Vienna, Wopke Hoekstra e Hartwig Löger, hanno chiarito che i loro Paesi sono i più irritati nel gruppo compatto degli altri 18 Paesi dell’area euro. Ancora più la stessa Germania, i governi di Olanda e Austria insistono perché da Bruxelles stavolta non si facciano sconti: i loro elettori non lo capirebbero e alle europee di maggio si affiderebbero ai partiti nazional-populisti in chiave anti-italiana e anti-euro.
Gli spazi di manovra per la Commissione Ue sono dunque minimi. Lo sono anche quelli per evitare a carico dell’Italia una procedura aggressiva, vista da alcuni in Europa come una lezione sacrosanta a un Paese dove pure l’incertezza generata dai populisti ha già quasi provocato una recessione. «Qualsiasi cosa facciamo ci saranno tanti scontenti», calcolava ieri sera un alto funzionario di Bruxelles. Certo Jean-Claude Juncker non vuole chiudere il suo quinquennio alla Commissione sconfessato, per colpa dell’Italia, da tutti gli altri governi dell’area euro. Anche per questo il presidente lussemburghese farà approvare mercoledì prossimo un documento formale, forse due: un’«opinione» che certifica la rottura delle regole da parte di Roma e probabilmente anche un’analisi sul debito pubblico, che getta le basi di una procedura di deficit eccessivo. L’Italia torna così fra i renitenti per il debito troppo alto, perché ora è in violazione anche sul deficit annuale.
Il passaggio successivo sarà anche più delicato. Probabilmente già in dicembre – al più tardi in gennaio o febbraio – la Commissione formulerà «raccomandazioni» sul «percorso di correzione» che l’Italia deve seguire per scongiurare la minaccia di sanzioni. È in teoria possibile – ma del tutto inverosimile – che si esiga un taglio del debito del 3,5% del reddito lordo all’anno. A Bruxelles si capisce perfettamente che la finanza pubblica si governa sulla base dei saldi annuali, non degli stock passivi accumulati in passato. Sembra dunque probabile che, per il 2019, la Commissione indichi per l’Italia una riduzione pari forse allo 0,1% del Pil del deficit strutturale (quello calcolato al netto delle fluttuazioni temporanee dell’economia). Sarebbe un passo ragionevole rispetto al deficit 2018, ma enorme rispetto alla manovra 2019: significa smantellare quasi del tutto i fondi per il reddito di cittadinanza e la contro-riforma delle pensioni. Di certo anche una stretta limitata su un’economia già debole può frenare ancora di più la ripresa, benché i tempi della procedura rendano comunque impossibili sanzioni all’Italia prima delle europee di maggio 2019. Per il 2020 e 2021 la correzione «strutturale» richiesta da Bruxelles potrebbe poi salire allo 0,6% del Pil all’anno. Sempre che il governo, magari in preda alle rapide dei mercati dall’inizio del 2019, accetti davvero di collaborare.