Le calamità naturali di queste ultime settimane hanno riproposto con forza la complessa questione ambientale, accendendo un faro sullo stato dei territori. L’attenzione al territorio è stata posta nella sua accezione di “terra”, di suoli e di acque, ma il territorio è soprattutto una costruzione sociale. Per questo non può essere affrontata solo come distruzione delle terre alte o devastazione delle terre basse, con il contributo dell’abusivismo.
Il problema della questione ambientale rimanda al modello di sviluppo,non è questione che riguarda solo i suoi margini. La questione rimanda al rapporto che si costruisce tra montagna e città, tra le Alpi e le pedemontane, tra Cortina e Milano, non solo nel senso di Olimpiadi, tra costa ed entroterra, tra terre dell’osso e terre della polpa, tra Sicilia del turismo e delle case spazzate via dalle fiumare. Il nostro modello di sviluppo “green” lavora sull’intreccio tra smart city e smart land, ovvero su uno stretto rapporto tra città e campagna (montagna, costa, etc), tra centri e margini. Green economy è un modello di capitalismo che incorpora il limite ambientale nel suo processo di accumulazione. Ne fa motore di un nuovo ciclo. Ma è un discorso che incorpora anche il tema dei nuovi conflitti: se vogliamo evitare di “bruciare” la green economy come una nuova bolla finanziaria dobbiamo associarvi la costruzione di una green society come partecipazione e civilizzazione. La green economy è una narrazione che deve produrre anche un’idea di green society. Possibile soprattutto in Italia dove, prima che altrove, il capitalismo di territorio è cresciuto storicamente coniugando economia e società. E in Italia si incarna nel tentativo delle città medie radicate nelle piattaforme produttive manifatturiere di riconvertirsi in città terziarie oppure delle grandi città come Milano, Roma e Palermo di ripartire dalla partecipazione civica sui temi ambientali per costruire un nuovo rapporto con le proprie aree metropolitane.
Le ricerche di Unioncamere e Symbola ci mostrano come nel nostro Paese sia in atto un movimento complessivo del sistema produttivo, dalla manifattura alle produzioni biologiche, dalle utility, dall’edilizia ai servizi, in cui sono i territori con le loro vocazioni produttive, le loro identità in trasformazione e le loro reti di saperi che stanno interpretando la green economy. Tracce di metamorfosi del capitalismo molecolare e dei saperi diffusi destinate a rimanere solo tali senza un capitalismo delle reti fatto non solo dei due colossi energetici nazionali, Enel e Eni, quanto di quel tessuto di multi-utility eredi delle municipalizzate. L’aspra dialettica tra big player del capitalismo delle reti e filiere del capitalismo manifatturiero che vede i territori in mezzo è una delle vie da praticare per dare corpo alla green economy. La “nostra” green economy, assai più che di investimenti hard nelle energie rinnovabili, ha il volto delle reti territoriali soft, dei “ritornanti” che promuovono nuova agricoltura facendo tesoro della rivoluzione slow, dei parchi come laboratori di pratiche sostenibili. La “nostra” smart land è innovazione sociale, comunità concrete che si appropriano delle soluzioni tecnologiche partendo dai loro bisogni. E la nostra sharing economy non è fatta dell’aggregazione di molecole di capitale alla Uber, ma di progetti di vita che entrano in risonanza rilanciando una mutualità del progettare, produrre, distribuire, acquistare, prendersi cura degli altri e dei luoghi.
A fronte di questa proliferazione orizzontale in tensione con la verticalizzazione delle strategie del capitalismo delle reti, manca una dimensione di rappresentanza che ponga in rapporto crisi ecologica, green economy e green society. Guardando all’Europa qualche segnale di una certa intensità mi pare venga avanti più dal basso che dall’alto: in Germania, ad esempio, dove le elezioni federali hanno evidenziato la forte crescita dei verdi, in Francia dove qualche giorno fa 18mila studenti universitari hanno firmato il “manifesto studentesco per un risveglio ecologico”, ma anche nelle recenti elezioni americane di mid term dove sono venute avanti proposte di new deal a trazione ambientale. Da noi sono ancora molto frammentate e disperse insorgenze che prefigurino fenomeni collettivi che segnalino la volontà di porre in agenda la questione della incorporazione del senso del limite in rapporto ai modelli di sviluppo che vengono avanti, di intreccio tra valori e interessi come forma di proto-rappresentanza.
Dopo la stagione delle 3 T della vecchia new economy, Tecnologia-Talento-Tolleranza, appaiono in questa evoluzione le 3 T della Terra come risorsa scarsa, del Territorio da ripensare nel rapporto tra città e campagna, della Tenuta dell’ecosistema come principio regolativo fondamentale. Queste tre parole vanno incluse nel vocabolario di chi vorrà passare dalla rappresentazione alla rappresentanza della questione ambientale come questione dello sviluppo.