Il dato della produzione industriale di settembre questa volta non è stato sorprendente o scioccante, gli addetti ai lavori si aspettavano -0,2% rispetto ad agosto e così è stato. Infatti l’Istat ha commentato che «prosegue la fase di debolezza della produzione industriale», aggiungendo che la flessione congiunturale è imputabile ai settori dei beni di consumo e dei beni intermedi, mentre risultano in crescita energia e beni strumentali. Del resto i dati che arrivano da Roma collimano con le analisi che vengono dai territori industriali del Nord: da Varese a Brescia, da Treviso a Padova, i comunicati delle associazioni industriali hanno tutti in comune la parola «rallentamento».
La novità rispetto al passato è che lo stop non è disuguale, stavolta riguarda tutti. Le imprese-lepri e le imprese-tartarughe.
Il trend negativo dell’economia reale incrocia giocoforza le politiche governative già varate o in corso di definizione e il risultato non è incoraggiante. Lo stesso Istat, in sede di audizione parlamentare, ha sottolineato come la manovra Tria avrebbe un effetto di aumento delle tasse del 2,1% per un terzo delle imprese (soprattutto quelle con meno di 10 addetti) ma soprattutto in questi giorni cominciano a trapelare i primi dati sugli effetti della legge Dignità e anch’essi non servono certo a tirar su il morale. Quella che si prospetta è quantomeno una decimazione dei contratti a termine così come del lavoro in somministrazione.
Se questi sono i presupposti, i rischi che dall’attuale rallentamento si passi a nuova recessione targata 2019 sono evidenti. I settori portanti del Pil, come automotive e mattone, non promettono grandi slanci, l’export è condizionato dalle politiche protezionistiche e di conseguenza non è tanta la legna con la quale cercare di far fuoco.
Non ci si deve però rassegnare. In prima battuta incalzando il governo, perché riveda le sue politiche per la crescita, iniziando magari dalle opere pubbliche. L’introduzione del reddito di cittadinanza, infatti, darà un po’ di ossigeno ai consumi di base ma la portata di questa spinta sembra contenuta e non tale da sorreggere il baricentro dell’industria manifatturiera italiana. Anche perché in parallelo le scelte di Luigi Di Maio sul 4.0 sono state deludenti.
Ci sarebbe necessità di favorire gli investimenti sul capitale umano per tentare di chiudere il gap che c’è tra domanda e offerta: le imprese più vivaci del nuovo triangolo industriale non trovano i tecnici di cui hanno bisogno. Ci sarebbe da accompagnare anche una seconda fase del 4.0, quella che crea piattaforme digitali comuni tra case madri e Pmi fornitrici. «La riorganizzazione in filiere — spiega Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo — è stata la risposta di flessibilità che il sistema delle imprese si è dato. Sono filiere molto lunghe e bisogna evitare che a pagare i venti di recessione siano le Pmi. La digitalizzazione è una risposta in chiave di efficienza».
Qualcosa in questa direzione si sta muovendo nei settori della moda, della pelletteria e della concia, ma decisive saranno le mosse dei grandi capo-filiera pubblici come Leonardo, Enel e Fincantieri. Se il governo ha a cuore i Piccoli, come sostiene, sono questi i processi che dovrebbe favorire.