Pescando nell’archivio olivettiano si potrebbe dire che quella di Torino è stata la manifestazione di una comunità che si è riconosciuta in un obiettivo comune, lo sviluppo. Non è un mistero che quella stessa comunità viva con angoscia la sensazione di un proprio irreversibile destino, l’asse dello sviluppo italiano si sposta verso est e Torino che è stata nel mondo il simbolo stesso dell’industrialismo italiano oggi fiuta il rischio della marginalità. Le feroci critiche alla giunta Appendino e persino l’entusiastico sì alla Tav sono altrettante pagine di un racconto che ha visto prodursi ieri un’interessante novità: la città storico teatro di grandi mobilitazioni di classe ieri è stata scossa da una piazza interclassista.
L’idea di sviluppo che quella comunità ieri ha fatto propria va al di là della mera vulgata keynesiana, più si scava più si genera occupazione, ma conteneva una visione moderna dell’economia. Che potremmo sintetizzare così: o si sta dentro i flussi internazionali di persone/merci o si rinuncia alla crescita, si sceglie di diventare periferia. Il pronunciamento dei torinesi fa apparire il modello autarchico proposto dai Cinque Stelle, nella loro prima esperienza di governo nazionale, per quello che è: una camicia di forza che si vuol fare indossare all’Italia del 2018. Siamo un Paese che vanta un’industria di trasformazione seconda in Europa solo a quella tedesca ma che per la carenza di materie prime siamo «condannati» ad essere aperti e a tentare di migliorare di continuo le nostre esportazioni. Non si può creare per decreto da Roma un mercato nazionale chiuso e tantomeno lo si può giustificare socialmente promettendo via Facebook l’abolizione della povertà o, magari al prossimo giro, l’adozione del reddito di torinesità.
La comunità piemontese, che ha una sensibilità al tema delle disuguaglianze di più lunga e comprovata tradizione di quella grillina, ieri ha detto che lo sviluppo serve anche per poter redistribuire e proprio per questo motivo non bisogna fermare il treno. Come già detto la crescita italiana — al netto del rallentamento di questa parte finale del 2018 — pende verso Est e l’intero Nord ovest soffre di una crisi di identità. Si pensi alla Liguria e ai rischi che il crollo del ponte Morandi ha proiettato sul futuro del porto genovese oppure si consideri come nello stesso Piemonte ci siano territori rimasti tagliati fuori dalle traiettorie dello sviluppo.
La ripresa degli ultimi due anni e mezzo non ha messo radici a Nord ovest, anzi ha mostrato la fragilità di economie locali zavorrate da invecchiamento, deficit demografico, pigrizie delle classi dirigenti e diventate incapaci di attirare investimenti e talenti. A rendere ancor più mortificante il tutto c’è la constatazione del crescente potere di attrazione di Milano sulle province piemontesi limitrofe e non c’è da stupirsi se ciò finisca per spingere il popolo del SìTav a considerare lo sbocco veloce verso Lione come una sorta di bilanciamento dell’influenza meneghina. Purtroppo si tratta di un equivoco e riconoscerlo è l’ulteriore passaggio a cui la comunità torinese, che ha animato la straordinaria manifestazione di ieri, è chiamata nelle sue prossime sortite.
Non ci sono Ovest e Est in alternativa, il ridisegno delle vocazioni economiche del territorio piemontese non può avere credibilmente successo al di fuori di una rinnovata relazione con Milano. Del resto riusciremmo mai a spiegare a un americano o a un cinese che due città che distano poco più di 100 chilometri tra loro e che si raggiungono via treno in 45 minuti non dialogano e anzi coltivano due distinte idee del proprio futuro?